27 marzo 2017

“Sandro Penna a cento giorni dalla maturità” di Davide Pugnana




L'infantilismo lirico di Penna è tra le più belle cifre letterarie del Novecento italiano, direi che è quasi una marca. Marca che torna alla luce dopo esser rimasta, per molti inverni, un seme sotto la neve.

In effetti, prima di Penna ce n'eravamo quasi dimenticati e dobbiamo falcare molte bracciate a ritroso per ritrovarne la scaturigine. C'era il sapiente, ma tutt'altro che innocente, contenutismo naïf del Pascoli, nel quale l'occhio appuntato sulle forme visibili della natura e tuffato nel microcosmo degli affetti domestici, covati in un sublimato nodo oscuro, trovavano ricomposizione (o smaterializzazione) in versi tesi e vibranti, simili a "finissimi sistri d'argento": lamelle musicali che, sfiorate dalle dita del poeta veggente, portavano dal laggiù di nebbie e campane la voce dei morti carica di promesse e verità.

C'erano le auliche - seppur travestite di modesta sprezzatura - regressioni/rinascite gozzaniane tra genealogia e memoria, tra la polvere degli oggetti desueti del salotto tardo ottocentesco e la lallazione protololitica del "mam-ma" e "co-cot-te" che sembra fare il verso alla lingua dantesca che vuol dar fondo a tutto l'universo con le sillabe di "mamma o babbo". Poi più nulla: il poeta-fanciullo tace ritroso tra l'orfismo di scavo nel porto sepolto, alla ricerca della parola dotata del peso specifico del mercurio, e la scabra prosodia montaliana, dantesca ancora una volta nelle sillabe piervignesche dei ciottoli espulsi dal mare dell'essere ed erosi dalla luce malinconica del mezzogiorno, tra biche di rosse formiche e case dechirianiane sferzate da venti oracolari, tenute sospese in un tempo senza ombra di lancette.

Tra queste rive, passano gli esordi di Luzi, di Gatto, di Bertolucci, di Caproni, poi di Giudici e del giovane Pasolini: un filologo travestito da cantastorie friulano. Poeti sofisticati, questi, in perpetuo dialogo con i maestri che hanno reciso il suono dal senso; instancabili passeggiatori solitari pronti ad interrogare, tra le colonne del tempio vivente, le loro 'corrispondenze' arcane e stupende. Ma il fanciullo ancora tace. Dobbiamo aspettare una piccola raccolta del 1939, firmata Sandro Penna, perché il trillo verginale torni a cantare e il pubblico assapori di nuovo l'infatilismo lirico che subito lo fa sentire "amico di Sandro".

Tra il petrarchismo di ritorno, corretto dal francessissimo Ungaretti, e il dantismo marino di Eusebio, ecco il comporre trapunto di allusività di Penna, senza segrete ambiguità, tutto traforato e traslucido, denso di filigrane semplici; quasi risolto in un (apparente, cioè voluto) ductus acquerellistico di visione delle cose, che non è deficienza di penetrazione, ma felicità naturale e visiva. Per me, è sempre stata questa la radice dell'infatilismo sapiente di Penna, che un po' lo avvicina alla "felicità" stenografica di De Pisis e un po' alla semplificazione cubitale di Rosai. Non si può che essere d'accordo con Garboli quando scrive dell' "inchiostro fresco e naturale" di Penna: "Oltre alla pura visività, c'è in Penna, che è poeta dotato di una larvale pluralità di tecniche, anche un altro sguardo da cui gli oggetti si ritraggono, per cui le immagini non varcano mai la soglia dell'anonimo [...] quello speciale entusiasmo [...] che generalmente si riserva agli artisti che sembrano stare a rimorchio, e nello stesso tempo, in virtù di un dono nativo, sembrano confermare la validità di esperienza maggiori di loro. "

Vedere gli studenti che tra cento giorni faranno l'esame di maturità e ancora non sanno cosa voglia dire l'addio agli anni del liceo, mi hanno fatto tornare in mente proprio alcuni versi di Sandro Penna che avevo quasi dimenticato: un poeta che alcuni di loro non leggeranno mai; che altri scopriranno tra qualche anno; o che, forse, non si legge nemmeno più, non so. Eppure, Penna ha fissato il senso della giovinezza in versi che scorrono come un brivido di disarmante lucidità. Il suo tono è un sibilo di vento atroce e bellissimo, simile a quello di un poeta giambico ed elegiaco precipitato in tempi moderni. Credo sia un bene non conoscere quei versi. Rimandarli a domani. Provo un certo sollievo per quella loro ignoranza: dicono che quando si vive non si scrive. O, piú semplicemente, si leggono i poeti quando si cerca un nome per ciò che si è vissuto. Eccoli, i versi per i centogiornisti:
"Ragazzi corrono sull'erba, e pare/ che li disperda il vento. Ma disperso/ solo è il mio cuore cui rimane un lampo/ vivido (oh giovinezza) delle loro/ bianche camicie stampate sul verde.

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