24 marzo 2016

"Cosa ha significato crescere tra le macerie del 1989 e quelle del 2001?" di Davide Pugnana




                                      EMILE CIORAN
Penso spesso a cosa abbia significato per la mia generazione esser cresciuta tra le macerie e i calcinacci del 1989 e quelli del 2001, tra i brandelli del grande muro divisorio e l'aereo che taglia la torre con la rapidità e facilità di un coltello nel burro. Non so quali cambiamenti latenti queste due "rovine" della Storia abbiano portato nell'immaginario dei nati, come me, nel torno degli anni Ottanta. Non saprei determinarlo; ma è qualcosa a cui dilettantescamente penso. 

Quelle immagini della morte, ad esempio, che ho e abbiamo avuto negli occhi - morte di un'epoca di divisioni politiche e morte di esseri umani - quanto, oggi, condizionano, o hanno messo in crisi e modificato, la riflessione sull'intreccio di paradigmi della modernità quali caducità/immaginazione/illusione? 

Penso questo spronato da alcuni passaggi di un piccolo libro di Emile Cioran, "La fascinazione della cenere" che raccoglie scritti sparsi, pubblicati tra 1954 e 1991. Lo riapro e scorro titoli che avevo dimenticato; ma che mi permettono di ritrovare alcuni nuclei generatori di interessi, oggi, ancora molto vivi in me: "Intorno a Machiavelli", "Da Vaugelas a Heidegger", "Incontri con Paul Celan", "Nicolas de Stael o la vertigine", fino a "Contro l'immagine". 

Tra questi c'è uno scritto su Leopardi. Sono poche pagine, di grande intensità autobiografica: 
"Mi sono sentito, e mi sento sempre, così vicino a lui nei miei stati di prostrazione, d'abbandono e d'orrore [...] a causa ovviamente della noia, piaga della sua vita e piaga della mia, con questa differenza tuttavia: che essa fu nel suo caso generatrice di poesie immense e non soltanto di qualche frase scucita. Ma, barbaro dei Carpazi, oso comunque paragonarmi al suo 'pastore errante' e non penso di essere stato indegno di lui quando, nella mia giovinezza, colpito dalla vastità e universalità del non senso, mi gettavo a terra tra sospiri e convulsioni, in preda ad uno spasimo estremo, certamente meno elegante in questo del pastore asiatico. "

A volte ho l'impressione che quelle immagini della morte nella Storia - che hanno mescolato lo sgretolamento architettonico alla lacerazione della pelle umana; la durezza incrollabile del cemento e del metallo alla docilità della carne, ponendoli, con un crudele livellamento, sullo stesso piano di 'cose' - abbiano agito, nella mia generazione, come allegorie di fascinazione e repulsione della "cenere"; come se esse avessero mandato in rovina non solo la dignità dell'uomo e la stessa nozione di civiltà; ma una reale facoltà di speculazione e una lotta per le illusioni che, oggi, sembra essere crollata o preclusa, o assente, alla mia generazione.

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