29 aprile 2015

"A me mi hanno salvato le storie" di Luciano Luciani

Eugène Delacroix
Il passato assomiglia a un magazzino che contiene materiali eterogenei, disparati. Non ci sono registri d'entrata, né inventario. Nessun ordine: né per entrata, né per anno, né per autore, né, tanto meno, per temi. Impossibile individuare il senso di quei depositi, più scoria che storia. Eppure, in questo caos magmatico, in gran parte ormai rappreso, freddo e solo di rado ancora caldo o appena appena tiepido è possibile individuare alcune relazioni significative e meritevoli di essere prese ancora in considerazione. Sì, negli anfratti dell'immenso stoccaggio della Storia, ci sono, mi raccomando l'iniziale minuscola, le storie: di rigore, invece, la maiuscola per la prima, bella e terribile come la Marianna della Rivoluzione francese, audace e determinata nelle sue poppe al vento e fieramente impegnata ad affrancarci, bon gré mal gré, tutti quanti siamo.

Giovinetto liceale in preda agli eroici furori di una giustizia sociale purchessia, me la immaginavo così la Storia: ruscellante di forme, morbida ma decisa emancipatrice, vocata alla libertà, alla giustizia, alla fraternità tra le genti tutte dell'orbe terracqueo.

E i fatti, almeno per un po', sembrarono darmi ragione: erano gli “anni formidabili” e la Rivoluzione avanzava a nord come a sud, all' est come all'ovest, nel mio villaggio e in quelli lontani. Sarebbe stato sufficiente continuare a occupare scuole e facoltà universitarie, fabbriche e terreni agricoli abbandonati, stampare al ciclostile migliaia e migliaia, magari milioni, di volantini da distribuire agli oppressi in tante albe caliginose, diffondere pazientemente la stampa buona e giusta e poi parlare, discutere, dibattere, disputare, contraddire e negoziare perché, sia pure con qualche fatica, si realizzasse, qui e altrove, la desiderata armonia sociale.


Le cose poi come è noto non sono andate proprio così. A farmi dolorosamente ricredere ci pensarono la strategia della tensione e i fatti del Cile, il terrorismo nero e quello rosso, Reagan e il craxismo, la marcia dei quarantamila e l'omologazione galoppante di quella classe operaia che, secondo i voti miei e di quelli come me, avrebbe dovuto “dirigere tutto”.
La caduta del Muro di Berlino mi trovò quindi già deluso e irrimediabilmente senile, incapace di comprendere il rifiorire degli antichi egoismi nazionalistici e i nuovi fondamentalismi economici e religiosi. Sarei diventato un attempato signore politicamente riottoso e nostalgico? La vittima, ne conosco tante, di una rabbia perenne e sterile, un patetico e recalcitrante abitatore del nuovo secolo e del terzo millennio? Per dirla con un aggettivo oggi di uso corrente, un “rottamato”?

Potevo diventare un leghista, un lettore di “Libero” o del “Giornale”, un seguace, anzi un follower, di Renzi, oppure un acido stronzo totale che allarga alle intere 24 ore i, talora legittimi, soli 5 minuti di fascismo quotidiano che mi pigliano oggi... Invece a me mi hanno salvato le storie. Quanto più la Storia grande mi deludeva, tanto più le storie, vere di vita o, perché no, d'invenzione, mi permettevano di attingere a sorgenti perenni e straordinariamente fresche di umanità e intelligenza, condivisione e solidarietà, utopia e pratico buon senso: storie di gente che non ha mai vinto, ma neppure è mai stata definitivamente sconfitta e ha comunque lasciato segni incancellabili. Se ne stanno lì, le storie, abbandonate, nel Grande Deposito e sarebbe sufficiente raccoglierle, basta scavare neppure tanto in profondità, spolverarle, restituire loro qualcosa dei tratti di un'antica, nobile dignità. Collegarle tra loro, intrecciarle, aggiornare il linguaggio e riproporne i valori morali e narrativi agli abitatori della nostra contemporaneità, fiduciosi nella loro intelligenza. Storie lievi e per questo più efficaci per arrivare al cuore dell'esistenza, per risvegliare, almeno un po', le coscienze narcotizzate.


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