03 marzo 2015

“Castelvecchio di Compito: viaggio nella lucchesia” di Gianni Quilici



Cielo grigio a tutto tondo. A guardare bene, però, strisce di un celestino smorto si allungano qua e là.
S. Margherita fermo davanti al passaggio a livello scrivo di getto:

La strada è senza sguardi
Così usuale, così scontata
Che scorre, scorre, scorre
E non rimane niente.

foto Gianni Quilici
Verso Colle di Compito, in un tratto di leggera salita, intravedo una di quelle chiese che, per collocazione, per minutezza mi appare agli occhi come un piccolo gioiello, anche se poi non ha niente di prezioso artisticamente o architettonicamente.
Perché appare d’improvviso in alto sopra un poggio, circondata da cipressi, ce ne sono ben 16 su un fianco e dietro, vecchi o da poco piantati e in uno spazio erboso, che domina la strada.
Come si evince, in parte dall’immagine, alcuni scalini e un manto d’erba, delimitato da un muretto, portano alla porta (semplice) della chiesetta con ai lati due  panchine di pietra (semplici) e, in alto, con il bel campanile a vela.
Nessuna scritta, da nessuna parte, ti informa della chiesa: come si chiami, quale sia la sua storia e le caratteristiche. Solo sul web trovo che ha un nome: San Martino di Palaiola, che faceva parte nell’Estimo del 1260, della Pieve dei SS. Giovanni e Reparata di Lucca con all’interno una sola navata e, come noto anch’io, senza abside.

Castelvecchio si trova poco avanti sulla strada di via di Tiglio, appollaiato a 138 metri , voltando a destra, attraverso una breve e tortuosa salita. 
E’ un paese, leggo, che ha un’origine antica. Risale almeno al periodo pre-romano, per la presenza di un ramo dell’Auser, il fiume Serchio, che favorisce l’insediamento, l’agricoltura e il commercio; ha il suo massimo splendore con i romani per le opere di bonifica messe in atto, per la nascita delle prime fattorie e per la fondazione dell’Abbazia di San Salvatore di Sesto, che avrà un ruolo economico e politico importante in tutta la regione. Il borgo collinare, quello dove ora mi trovo, nasce con la fine dell’impero romano e l’invasione dei barbari. La popolazione, infatti, è costretta a cercare riparo sulle alture vicine. Da ciò sorgerà Castelvecchio di Compito, che si trova ancora oggi sulla planimetria dell’antico castello, nato come strumento di difesa, ma di cui non è rimasto niente.

Il primo aspetto che, inevitabilmente, colpisce la vista è la sua collocazione raccolta, in alto sulla collina, ad un passo dalla via provinciale.

foto Gianni Quilici
Il secondo elemento interessante: lo sguardo dall’alto sul paesaggio. Perché è uno sguardo della forma di un semicerchio, largo e vario, punteggiato da molti ingredienti naturali, fisici ed urbani.  Si può partire dalla via sottostante, abbastanza urbanizzata, salire verso il borgo di Colle di Compito per arrivare al monte Serra e da lì discendere sulle colline del compitese, per allargarsi sulla Piana di Capannori, incluse la torre di avvistamento di Porcari e la collinetta con la torre-campanile di Montecarlo fino alle Pizzorne per ritornare, infine, a ciò che è più vicino ed attraente, il lago della Gherardesca con la sua forma stretta e allungata, tra i cipressi e la vegetazione palustre e la distesa solitaria dei territori bonificati, oggi in prati e alberi.

Il paese non ha palazzi rilevanti, manca una vera e propria piazza, e la facciata della Chiesa di S. Andrea, fondata prima del secolo XIII, ma notevolmente rimaneggiata, è modesta. Ci sono, invece, case coloniche con mandolato ben ristrutturate, altre lasciate a se stesse,  vicoli, per buona parte, lastricati in pietra lavorata e alcune case  ricoperte da piante di limone con i loro festosi  colori giallo-verde.

Castelvecchio di Compito. Domenica 1 marzo 2015.





   

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