22 gennaio 2015

“Un tetto per la notte” di Robert Louis Stevenson




di Gianni Quilici

Ci sono dei romanzi o racconti, sui quali scrivere diventa difficile, perché il pensiero più istintivo è tanto semplice quanto frustrante: leggetelo! Leggetelo, perché non ve ne pentirete e non importa se il lettore sia alquanto sofisticato oppure alquanto modesto.

Questo ho pensato dopo aver letto velocemente il racconto Un tetto per la notte di Robert Louis Stevenson, in una edizione forse introvabile “L’argonauta” del 1987, che contiene un altro racconto La porta di Sire di Maletroit, quasi una fiaba,  gradevole come tutto ciò che ha scritto Stevenson, ma di cui si può fare a meno.

Un tetto per la notte è un racconto su François Villon, grande poeta maledetto, vissuto nel secolo XIV, che, arrestato quattro volte per episodi di malavita, e dopo essere stato condannato a morte, riuscì sempre a farsi rilasciare.

Robert Louis Stevenson
Perché, a mio parere, è un grande racconto? Proviamo in modo forse pedante a scomporlo un pochetto, inserendo per motivare il giudizio brevissimi spezzoni, che comunque non dovrebbero togliere per niente il piacere di leggerlo.

Primo: perché è straordinariamente visivo, scorre attraverso i nostri occhi come se fosse un film, in cui paesaggio e vicenda umana si fondono mirabilmente.
Stevenson, infatti, ci introduce subito in una Parigi notturna avvolta dalla neve che cade con “un’insistenza aspra e implacabile” con il vento tagliente che “sparpagliava intorno in mulinelli svolazzanti” con i fiocchi di neve che “scendevano ad uno ad uno, dall’oscurità della notte, silenziosi, turbinanti senza fine” eccetera eccetera.
Il freddo bianco e avvolgente della serata diventa ancora più implacabile, palpabile e assorbente attraverso il poeta, che è costretto a vivere fuori al ghiaccio, derubato, affamato con il rischio di finire congelato come è successo ad una donna su cui era inciampato, rimasta tra la neve “gelata e rigida come un bastone” oppure con la possibilità di venire catturato dalle ronde dei soldati, che giravano a frotte per la città e che avrebbero potuto prelevarlo ed impiccarlo senza tanti problemi, considerando che poco prima c’era stato, tra i suoi compari, un delitto, di cui era stato spettatore.

Secondo: l’immediata, viva e profonda capacità di descrivere ogni personaggio del racconto, anche quelli minori, riuscendo a armonizzare con molta abilità l’aspetto fisico con il carattere e viceversa.
Prendiamo come esempio Don Nicolas, frate della Piccardia “col saio rimboccato e le gambe grasse e nude”.
La sua faccia, gonfia e tumefatta come quella di un bevitore accanito, era coperta da una rete di venuzze congestionate, rosse in circostanze normali, ma ora di un violetto pallido (…) Il cappuccio gli era mezzo cascato giù dalle spalle, e formava una strana escrescenza ai lati del suo collo taurino. Se ne stava così a gambe larghe mugugnando, e tagliava la stanza a metà con l’ombra della sua massiccia corporatura”   
Ma straordinario è soprattutto Villon, ladro e derubato, teatrale e sensibile, orgoglioso e opportunista,  scaltro e angosciato.

Terzo: è infine un racconto di classe, nell’accezione marxista del termine. Alla fine Villon, infatti,  trova ospitalità da un vecchio gentiluomo, in una casa signorile con arazzi eleganti, brocche d’oro, stemma araldico. Qui, mentre sta mangiando e bevendo golosamente, inizia una conversazione che assume progressivamente i caratteri di uno scontro.

Da una parte “il signore  di Bristout, balivo del Patatrac”, come si presenta, orgoglioso dei suoi gradi, fedele a valori come la fedeltà a Dio, la cortesia d’animo, l’onore, la rispettabilità; valori nobili, secondo lui, rispetto ai piccoli bisogni terreni del mangiare e del bere.

Dall’altro Villon, povero maestro di Belle Lettere, ladro, furfante, vagabondo e squattrinato, che però rivendica il proprio onore, perché sa cosa vuol dire soffrire con la pancia vuota.
Gli dice infatti osando criticarlo: “Se l’aveste provata voi tante volte quanto me” - sottintesa la fame- “forse il tono del vostro discorso cambierebbe”; e se non bastasse si pone sullo stesso piano, lui ladro, del gentiluomo pieno dei suoi valori di privilegio. Dice infatti: “ In ogni caso io sono un ladro, ma anch’io ho un mio onore valido come il vostro”
Il gentiluomo non può accettare questo tono e questi contenuti e lo caccia disgustato dalla sua presenza qualificandolo “vagabondo e farabutto impudente”, facendogli, tuttavia strada per un puntiglio d’onore e congedandolo infine con un: “Dio abbia pietà di voi”.

Come si intuisce anche nella sorprendente chiusa Villon non è uno stinco di santo così come il vecchio gentiluomo non è senza pietà e generosità.  Lo scontro, insomma, è ricco di perspicaci sfumature psicologiche e ideologiche.

Robert Louis Stevenson. Un tetto per la notte. Traduzione di  Piero Pignata e Rosa Clot-Tite. L’Argonauta.
Si può trovare anche come Ebook edizione Faligi Editore. 1,99 euro.             




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