19 settembre 2014

“La macchia umana” di Philip Roth




di Gianni Quilici

Leggo questo romanzo  nel letto e un po’ sulla scrivania. In tutte e due le posizioni sono travolto come mi era accaduto nell’altro grande romanzo di Philip Roth Il teatro di Sabbath, così straordinariamente libero nel suo cinismo doloroso e nel suo  frenetico libertinaggio.
E sono travolto non tanto dal suo intreccio narrativo, quanto dalla sorprendente bravura stilistica e dalla sorprendente profondità che trasmette. Così la lettura l’ho percepita certo criticamente, ma senza avere la forza di fermarmi, di interrogarmi, di precisarla, di articolarla, di farla diventare verbo.
Così mi è successo per La macchia umana, meno gioioso e libero, però altrettanto disperato e ugualmente profondo de Il teatro di Sabbath.

Philip Roth non ti fa vedere i personaggi soltanto nell’attimo o negli attimi in cui vivono, ma li esplora nella loro storia. Lo scopo evidente mi pare che sia: cercare di capire perché siano così. Quale ragione e quali misteri essi nascondono. Ho pensato, leggendolo, a Jean Paul Sartre, all’ossessione di Sartre di capire Baudelaire o Genet, ma soprattutto Flaubert. Capirlo attraverso la sua storia: l’infanzia, i rapporti con la famiglia, con l’ambiente e infine con la Storia del tempo.

E’ ciò che Philip Roth rappresenta soprattutto con il protagonista, Coleman Silk, ma non solo con esso. Lo fa attraverso una storia che affonda nella sua infanzia e adolescenza, seguendolo fino all’ultimo giorno.
Ecco Coleman, all’inizio del romanzo, un insegnante 71enne energico e affascinante, colto, raffinato e molto determinato, a cui è bastata una solo frase, una banale frase strumentalizzata biecamente, perché si scateni contro di lui tutte le invidie e i risentimenti, tutti gli odi latenti, perché crolli il suo mondo, la sua brillante vita accademica e si smembri la sua famiglia.

Da questo stato di cose inizia il romanzo, che l’io narrante, lo scrittore protagonista di tanti romanzi di Roth, Nathan Zeckerman, ricostruisce, come in un puzzle, pezzo per pezzo. Una storia complessa e rivoltosa, quella di Coleman, una fuga dalle sua radici, portandosi dietro un segreto, che è riuscito abilmente a nascondere, fino alla tomba.

La sua storia introduce altri co-protagonisti del romanzo: Faunia Farley, una bionda esile 34enne, analfabeta, con alle spalle storie terribili di violenze e di morte, priva di qualsiasi illusione e per questo libera, con cui il protagonista coltiva una relazione erotica molto intensa; il marito di lei reduce dal Vietnam, che questa guerra ha traumatizzato in modo indicibile; Delphine Roux, giovane e piacente francese, nuova direttrice del dipartimento di letteratura tanto ambiziosa quanto frustrata; e altri ancora più o meno significativi nell’economia del romanzo.

L’America, anno 1998, sotto shock per i pompini che Monica Lewinsky elargì al presidente Clinton, è lo scenario più adeguato dello spregevole conformismo con cui una società ipocrita e indecente, nel nome della decenza, condanna, emargina e “uccide” Coleman e, in un certo senso, anche la sua amante Faunia Farley.

La scrittura di Philip Roth necessiterebbe un’analisi minuziosa per coglierne lo spessore stilistico e psicologico, sensoriale e filosofico evidenziato da decine e decine di dettagli, dall’accuratezza e dall’originalità dello sguardo, dalla molteplicità e densità dei punti di vista, dalla complessità dei personaggi e dalle loro relazioni, dal  mistero della vita che ne consegue.

 C’è, infatti, un dialogo rivelatore in cui Coleman, attraverso l’io narrante di Zuckerman, esprime  la sua filosofia ultima della conoscenza.
 «Tutti sanno… Cosa? Perché le cose vanno come vanno? Cosa? Tutto ciò che sta sotto l’anarchia del corso degli avvenimenti, le incertezze, i contrattempi, il disaccordo, le traumatiche irregolarità che caratterizzano le vicende umane? Nessuno sa, professoressa Roux. “Tutti sanno” è l’invocazione del cliché e l’inizio della banalizzazione dell’esperienza, e sono proprio la solennità e la presunta autorevolezza con cui la gente formula il cliché a riuscire così insopportabili. Ciò che noi sappiamo è che, in un modo non stereotipato, nessuno sa nulla. Le cose che sai… non le sai. Intenzioni? Motivi? Conseguenze? Significati? Tutto ciò che non sappiamo è stupefacente». La realtà è irriducibile a qualsiasi tipo di categorizzazione. L’ontologia è una monumentale illusione della civiltà occidentale, che – come ogni monumento – è destinato prima o poi a crollare. Niente è come sembra. Tra verità e apparenza si erge l’ostacolo insormontabile della complessità, che rende impervio qualunque tentativo di imporre una tassonomia all’esperienza”.

Infine, questa ricchezza strabordante della rappresentazione di Roth eccede, a volte, fin troppo, tanto da appesantire la narrazione facendo sentire la presenza dello scrittore più che dei personaggi. Ma anche qui c’è un risvolto, per così dire, eroico: come se Philip Roth non  volesse avere limiti rappresentativi.


Philip Roth. La macchia umana. Traduzione di Vincenzo Mantovani. Einaudi.    
 

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