01 giugno 2013

“Ja” di Thomas Bernhard



di Gianni Quilici

La prima tentazione: lasciare perdere, inesorabilmente chiudere. Perché lo stile dell’ultimo  Bernhard fatto di periodi lunghi, dove un fatto viene lasciato e ripreso più volte, creando una circolarità ossessiva, mi aveva respinto, pur avendo letto notevoli romanzi simili, come per esempio “Perturbamento” e “Cemento”.

Ho invece continuato la lettura ed ho capito ben presto che mi sbagliavo. Bernhard è uno scrittore dialettico, un tipo di dialettica negativa e ossessiva.
Dialettico, perché questo nucleo narrativo iniziale, apparentemente statico, si articola e nello stesso tempo si approfondisce. Si articola, cioè il romanzo diventa storia anche avvincente; e si approfondisce, perché scolpisce i caratteri dei personaggi nel loro nucleo più profondo.
Questo movimento narrativo e penetrante esprime una visione dell’uomo e dell’esistenza spietata, di un nichilismo che nessuno salva, neppure l’io narrante.

L’io narrante è uno studioso di scienze naturali, che vive in una casa orribile, in un luogo orribile dell’Austria, è malato, misantropo,  apatico, fallito come studioso e senza uno scopo, ha pensato per tutta la vita al suicidio, senza però avere il coraggio di eseguirlo. E in uno stato spaventoso si reca dal suo unico amico Moritz, agente immobiliare, per rovesciare su di lui tutto d’un colpo e nel modo più brutale la sua vera situazione psicologica, finora a lui nascosta… quando appare una coppia matura, lui, uno svizzero ingegnere famoso che costruisce centrali nucleari, lei persiana. Fin dal primo momento lo studioso è affascinato dalla donna….

Progressivamente, attraverso questa prosa circolare che accumula musicalmente e ossessivamente fatti su fatti, Thomas Bernhard ci fa capire e sentire i protagonisti: l’abilità nel suo lavoro e la forza di carattere di Moritz, la crudeltà implicitamente disumana dello svizzero, la meschinità e la malvagità della padrona dell’hotel e di tutto l’ambiente circostante, il masochismo autodistruttivo della persiana. L’io narrante sembra salvarsi dalla sua “infermità psicoaffettiva”, grazie al rapporto benefico con la donna persiana . Nel suo raccontare, però, il protagonista non dice tutta la verità, non è spietato con se stesso come lo è stato inizialmente. Vittima di un ambiente carnefice, anche lui diventa un carnefice. Il romanzo finisce con un sì, (lo Ja tedesco, titolo del romanzo) pronunciato dalla donna ed è un sì, che diventa l’ultima estrema lapidaria affermazione di negazione della vita.

Un romanzo di grande spessore analitico e anche visuale. Perché questa prosa è’ talmente maniacale, che non solo i personaggi, ma l’ambiente e i vari habitat( il  campo tristissimo, su cui dovrà essere costruita la casa della coppia, l’hotel, le voci della gente) rimangono e ben si incidono nell’immaginazione.

Quale potrebbe essere il limite di “Ja”? Ho pensato per un attimo alla donna persiana, un personaggio più letterariamente simbolico che reale, per molti versi, speculare all’io narrante. Però è l’io narrante che la vive e che ce la racconta secondo la sua percezione e i suoi sentimenti, non è lo scrittore. Perché, ci si può chiedere, un rapporto tra i due, che inizialmente è intenso, diventa poi insopportabile? Lo scienziato narrante non lo analizza, ce lo dice come fatto, che sembra non avere cause. Perché il suo interesse per la donna è svanito. Quindi questa figura rimane indefinita, diventa comunque la visione del mondo di Thomas Bernhard, orribile, nichilista.

Thomas Bernhard. Ja. Traduzione di Claudo Groff. Ugo Guanda editore. Pg. 103. Euro 12,00.

     

   

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