30 maggio 2013

" Arte e bellezza" di Antonio Paolucci



di Davide Pugnana

Credo sia la prima volta che mi capiti di iniziare una recensione partendo da un piccolo aneddoto personale, quello che i francesi chiamano il petit fait vrai. A poco o nulla sono valse le più sottili strategie di resistenza all’io; o la feroce mortificazione autocritica messa in atto per temperare, frenare, debellare qualsiasi tentazione autobiografica. Uno alla volta, i numerosi tentativi di incipit ‘oggettivi’, tenuti sul filo di un approccio, come si dice in gergo, “lavorato con distacco critico” sono precipitati nel dimenticatoio. Eppure mi ero preparato a scrivere un’impeccabile, inamidata pagella del libro, puntellandola di tutti i crismi dell’analisi critica: il tuffo nel magma dei concetti e delle frasi per ridisegnarne la tessitura; l’elogio della finezza del tenore intellettuale; la corsa - come si fa davanti ad un pensiero baciato dall’originalità - ad accendere la luce nei corridoi laterali, per collegarli con stanze inesplorate e porte comunicanti. Questo è il galateo di ogni buona recensione. Ebbene, se questo metodo poteva calzare per molti libri sottoposti a recensione, questa volta l’obbedienza all’oggettività dava allo scritto un vero e proprio sapore di tema scolastico. Anche il tradizionale rimedio di lasciar sedimentare la materia, ignorandola per settimane, fingendo che non esista o non possa aver sviluppo, è apparso come un infantile gioco del nascondino. Alla fine ha vinto la prima persona. Le prime parole che mi vengono sotto la penna sono, quindi, queste note di diario, le sole capaci di restituirmi il senso di un incontro speciale, prima che con un oggetto di carta con una persona. Anzi, con una voce.

È vero che accade spesso – mi accade spesso -  di identificare uno scrittore con l’impressione che ne ebbi la prima volta. Anche se passano gli anni, e scorrono altre letture, e il palato si impreziosisce di nuove essenze, quella impressione può tornare prepotente a guidare l’ascolto. Talvolta è una tessera interna al proprio gusto, il segno di una presenza rimesta a metà tra l’intelligenza del cuore e quella della mente; altre volte può mostrarsi giusta e vera. Il che vuol dire che quel contatto aurorale con lo scrittore ha lavorato in un silenzio inavvertito, fino a condensare quella prima impronta fugace nella consistenza plastica di una figura. Una figura che finisce per appartenere all’intimo dominio della propria storia e biografia intellettuale. Ora, Antonio Paolucci è legato per me all’impressione che ne ebbi quando sentii la sua voce la prima volta. Cadde nella mia vita al di fuori dei contesti ufficiali delle conferenze e delle lezioni (dove mi sarei aspettato di scoprirla), visitandomi in un contesto di ovattata, normale, quotidianità. Non è facile isolare il punto di inizio di un rapporto. Difficile tener separata la folla di sensazioni nella loro successione narrativa. Ricordo solo che quella voce mi colpì da subito per la grana, per la consistenza timbrica, lieve e profonda. Velata e materica a un tempo. Questa voce singolare proveniva dalla stanza accanto. Ricordo che mi ero fermato per ascoltarla, preso dallo stesso piacere che si prova quando, camminando distratti per strada, da una finestra aperta un suono ci raggiunge, magari una frase musicale o un motivo che ci sono familiari, ma dei quali non ricordiamo la fonte. Non sembrava la voce cadenzata e monocorde dei messaggi televisivi: quella voce umana che, filtrata dal passaggio nell’audio meccanico e sparata nello spazio dai lati dello schermo o dalla base, giunge spogliata di colori e stravolta nella forma. La voce che arrivava dall’altra stanza era più calda ed effusiva. La sua tramatura fonetica creava una tonda geometria senza smagliature calata in un’interna, serena cavità minerale di quarzo che ne metteva in evidenza all’orecchio le trasparenze. Trasportava nell’aria un ritmo, incarnava un dettato, segnava nella mente un’idea di garbo che avevo ‘ascoltato’ sui libri o, raramente, raccolto in qualche aula universitaria come un’epifania. Eppure, non potevo dire che fosse la voce di Narciso, innamorata delle proprie risorse espressive e schiava d’una compiaciuta abilità oratoria. Di un attore non aveva la dizione educata e pulita. Forse era la voce di qualcuno che stava leggendo un testo famoso, un classico della letteratura o della storia. Ricordo bene che mi ero fermato d’improvviso, proprio come fossi stato colto da una melodia trovata per strada. Ascoltandola nelle sue vene possenti o seguendola nei suoi rivoli minuti; fermandomi nelle fessure delle pause, in quelle crepe dove i concetti sembravano fissarsi in incanti improvvisi, poi dilatati in immagini fatte metafora di un sottofondo allusivo, ecco questa voce che scherzava e giocava con le parole e divagava in bellissimi voli, era un luogo fisico meraviglioso. Una sorta di vasto tempio, antico e moderno insieme. Un grembo arcaico. E in quel preciso momento, mi ha attraversato il pensiero che non solo i nomi propri di persona sono luoghi di intensità, come ci narra Proust nel finale di Du coté de chez Swann; anche alcune voci umane hanno in sé il potere evocativo di disegnare luoghi, di allestire spazi permeati da un’atmosfera che desideriamo abitare. Potevo spingermi ad affermare che in quella voce enigmatica avveniva come “nel nome di Balbec, come nella lente d’ingrandimento di quei portapenne che si comprano al mare, scorgevo onde inarcate intorno a una chiesa di stile persiano.”? Non lo so. Di una cosa però non avevo dubbi: quella voce nell’altra stanza era figlia dei libri. Con questo non voglio dire che fosse “libresca”. Tutt’altro. Una voce nutrita dai libri è uno strumento che porta in sé una fibra umanistica inconfondibile. È come passare le mani su una stoffa per saggiarne la qualità nella sua esistenza tattile. Qualsiasi cosa dello scibile essa tocchi o abbracci acquista un palpito nuovo. Certo, non potevo negarne la fattura oratoria: le frasi, sinuosamente costruite e inanellate con cura dialettica, erano degne di un fioretto sottile ed elegante. A rivelarne però questa particolare natura non era la forma, bensì il suo andamento: ossia quella cadenza in prosa che sembrava restituirmi la grazia di stile di alcuni autori. Ad esempio, poteva essere figlia del Seneca delle Lettere a Lucilio e dei Saggi di Montaigne; della linea dei moralisti classici; del timbro narrativo delle Vite vasariane o delle pagine di Luigi Lanzi, oppure poteva essersi fatta sull’ampio respiro della lingua manzoniana. Impressioni, queste, che tanto più confermavano la presunta consanguineità umanistica della voce nella scelta felice di alcune immagini-metafora: spie che lasciavano affiorare, in filigrana, il gusto educato e prezioso di un lettore di poesia.

Questa voce incarnava alla perfezione uno stile di conversazione di cui, anni prima, avevo letto una descrizione in una raccolta di scritti di Pietro Citati e che ora vado a recuperare. Vale la pena riportarne un passo: “La scrittura è fissa: o almeno il movimento tumultuoso delle parole cerca di trovare in lei una forma definitiva, sebbene il movimento verbale vi palpiti ancora. La bellezza della conversazione sta nella sua inarrestabile fluidità.”

Non credo di aver mai ascoltato una conversazione così perfetta. Per me, la bellezza della voce nella stanza accanto era proprio l’inarrestabile fluidità della conversazione che, solo più tardi, in una seconda occasione portatami ancora una volta dalle mani del caso, avrei saputo appartenere ad Antonio Paolucci. E, cosa ancor più impressionante, questa voce singolare l’avrei riscoperta intatta e fedele a se stessa sulla pagina scritta.

Arte e bellezza (collana orso blu, Editrice La Scuola, Brescia 2011) è, forse, il testo che più di altri restituisce alla perfezione l’intuizione dell’accordo elegante, la giustezza di tono e la misura classica della voce (la voce del pensiero) di un umanista del nostro tempo. Nelle belle spirali dell’ intervista-conversazione con Carolina Drago, Paolucci attraversa episodi nodali della sua biografia umana e intellettuale, muovendo il ricordo sul doppio confine dell’educazione sentimentale e intellettuale e della vitalità culturale, esperita sul campo. Dall’infanzia riminese, tra gli oggetti preziosi della bottega antiquaria del padre, fino alle battaglie da soprintendente; dalle opinioni sull’arte contemporanea al turismo culturale; dalla gestione del “museo diffuso” alla vacua terminologia critica, dove le parole non rispecchiamo gli oggetti (“beni culturali” invece che “belle arti”; “territori” in luogo del più aderente “paesaggio”). Ampio spazio è riservato alla questione della tutela del patrimonio culturale italiano. Paolucci sottolinea il primato dell’Italia in questo ambito. L’episodio cruciale di questa storia dai marcati chiaroscuri è quello che riguarda le scelte di Leone X: “Nel 1516, un papa, Leone X, Giovanni Lorenzo de’ Medici, grande intellettuale e straordinario umanista, decise che per amministrare il patrimonio storico e culturale di Roma ci voleva un tecnico. Avrebbe potuto nominare come Soprintendente al patrimonio artistico di Roma un alto prelato, un suo parente, , un sostenitore politico e invece spiazza tutti. Nomina un tecnico e chiama il più talentuoso di tutti: Raffaello Sanzio. Con Leone X, per la prima volta, cinque secoli fa, si afferma il concetto che la potestà prescrittiva e normativa nell’ambito dei beni culturali, deve essere affidata alla competenza tecnica. Per questo quando si parla di manager dei musei, di ‘bocconiani’, che dovrebbero governare ed amministrare i musei, io cito sempre Leone X dei Medici.” Da questo punto massimo, collocato nel cuore dello spirito rinascimentale, la storia della legislazione dei beni culturali in Italia prosegue come un vettore che tocca disegni di leggi definiti, da Paolucci, “capolavori di civiltà e di sapienza giuridica”, ulteriori conferme del primato italiano e di nuove forme di cultura illuministica: l’editto Pacca del 1820, nello Stato della Chiesa; la legge Bottai, nel 1939, in pieno fascismo. Una legge, quella di Bottai, che aveva alla base “consulenti come Roberto Longhi, Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi, storici dell’arte, teorici del restauro, uomini d’eccellenza.”

A questo punto, vien fatto di chiedersi da dove provenga la finezza d’eloquio di questa voce? Dov’è caduta la traccia dell’eco primario e fondante, rimasto impresso per sempre nella gola? Qual è la sua lettera scarlatta? Questa scaturigine può essere individuata in un anello della formazione di Paolucci. Nel primo capitolo, L’amore per la bellezza, egli ci racconta i suoi anni universitari a Firenze: “Dopo il liceo sono andato a Firenze dove c’era la cattedra di Storia dell’arte di Roberto Longhi, uno dei più grandi storici dell’arte italiani. A Firenze c’erano musei, c’era in qualche modo la bellezza istituzionale: il Bargello, gli Uffizi, Palazzo Pitti. Ho studiato lettere con indirizzo storico-artistico e mi sono laureato a 24 anni con Roberto Longhi, con una tesi sulla pittura ferrarese ed emiliano-romagnola del Quattrocento.” Roberto Longhi ha formato una scuola di studiosi straordinari, nomi che vanno da Francesco Arcangeli a Flavio Caroli. Figure di critici-scrittori che ci hanno lasciato tra le più belle pagine della prosa italiana del Novecento. Ma Longhi, per chi lo ascoltò e per chi lo lesse, per le generazioni di ieri e di oggi, fu anche un maestro di stile e di bellezza oratoria. Di arte e bellezza della parola. Di Roberto Longhi, anzi, si può dire ciò che Giorgio Caproni scrisse per Montale. Parafrasando il noto epigramma: “Ciascuno ha il suo Longhi/ ritagliato a misura./ Vale quello che vale/ secondo natura e statura.” Per il giovane Antonio Paolucci, questo maestro dal fascino stregonesco ha certo costituito la cifra fondante della sua voce, di oratore e di scrittore: “Roberto Longhi mi ha insegnato la conoscenza tecnica dell’opera d’arte e , insieme, la capacità che ha la parola di diventare mimetica della figura. Questo è un insegnamento prezioso: saper scegliere le parole che riescono a restituire a te stesso e agli altri la curiosità e la felicità che dà l’opera d’arte.”

L’insegnamento di Longhi lavora al fondo della capacità mimetica che Paolucci ha di filtrare il pulviscolo di materia biografica, umana, esperienziale e la percezione visiva dell’opera nei modi di un racconto: di una narrazione fluidamente orchestrata e calibrata su tempi narrativi, fitta di personaggi, di folle, di scenari storici, di luci e ombre, di oggetti. Come quando Paolucci proietta la sua fantasia verso l’ideale epoca storica, verso l’Heimat che il suo desiderio e il suo temperamento vorrebbero abitare: “Io tornerei a Roma nell’estate del 1508. In quell’estate succede che un papa che si chiamava Giulio II della Rovere chiama qui a Roma un ragazzo di venticinque anni, che era Raffaello di Urbino e un giovane uomo di trentatré anni che era Michelangelo Buonarroti e chiede a Raffaello di dipingere il suo appartamento privato e a Michelangelo di dipingere la volta della Cappella Sistina. Chissà com’era quell’estate del 1508? Chissà com’era Roma? Stava succedendo di tutto. Era già arrivato Lutero, si era fermato a Santa Maria del Popolo, veniva dal Nord, scendeva dalla Flaminia ed entrava dalla Porta del Popolo. Lutero si ferma nella chiesa agostiniana di Santa Maria del Popolo, i suoi confratelli lo ospitano e lui il giorno dopo comincia a girare per Roma, si fa in ginocchio la Scala Santa, visita le basiliche, si ferma davanti alle venerabili reliquie della cristianità, arriva a San Giovanni in Laterano dove c’era il governo pontificio. Arriva a San Pietro che era ancora quella di Costantino, l’antica San Pietro affrescata da Giotto. Come mi piacerebbe seguire i passi di Martin Lutero in quell’estate! Lui che comincia a pensare a Roma come alla nuova Babilonia, mentre i cardinali ricchissimi passano per la strade con la loro corte, con le loro amanti.”  E quando Paolucci ci descrive le sue fantasticherie di passeggiatore solitario, nella dorata solitudine delle gallerie vaticane, come un personaggio delle tele di Pannini, la nostra stessa fantasia non può che tornare alle passeggiate di Winckelmann e di Mengs al fianco del cardinale Albani, nelle belle serate romane in villa.

Questa dote di narratore di affreschi storici, di vite d’artista e di opere d’arte trasmutate in sostanza verbale, non permea solo la produzione saggistica di Paolucci. Certo, esempi memorabili li possiamo trovare nella Presentazione al catalogo della mostra dedicata alle botteghe fiorentine del Quattrocento, laddove ci accompagna nelle dinamiche dei rapporti maestro-allievo, “fenomeno complesso e affascinante che chiede di essere capito al di là dei luoghi comuni e degli stereotipi romantici.”. Li possiamo trovare nell’attraversamento della poetica e della ritrattistica di Francesco Messina; e sono le pagine nelle quali lo sguardo di Paolucci si ferma a spiegarci la koinè plastica, le radici linguistiche della scultura italiana del Novecento: “I maestri prima citati hanno inteso la tradizione non come manuale d’uso e codice di riferimento ma come ‘lingua’; l’hanno assimilata e quindi usata con la naturalezza e con la libertà con le quali ciascuno di noi usa la lingua nativa. Questo ha permesso loro di affrontare la ‘Modernità’ senza impacci, senza piombo nelle ali. Come io che scrivo uso la lingua del Lanzi e del Vasari e non saprei, né vorrei, usarne altre, così i maestri della ‘linea italiana’ hanno usato la lingua di Arnolfo e di Donatello, del Laurana e di Desiderio essendo consapevoli, tuttavia, che con lo strumento di quella lingua, essi erano chiamati a raccontare la ‘Modernità’, a dar significato agli argomenti e ai miti del XX secolo, non già a rievocare il passato.” Lo stesso palpito quasi di stupore e il medesimo afflato che anima le pagine sulla scultura di Messina, o le altre di pregnante, partecipata intensità, dedicate alle gipsoteche delle Accademie (I gessi d’accademia, fratelli sfortunati), lo ritroviamo nel tenore e nel ritmo di conversazione di Arte e bellezza, la cui fluidità argomentativa raggiunge uno dei suoi apici nel capitolo quinto: Il museo ideale. Qui, Paolucci traccia la sua ideale collezione museale e tocca una sapiente narrazione delle immagini d’arte.” Nel descrivere Las lanzas, La ronda di notte, la Madonna di Senigallia, i Coniugi Arnolfini,  l’Olympia, Guernica, la voce di Paolucci – quella stessa voce che mi ha fasciato in un giorno di normalità quotidiana nell’altra stanza e simile ad un’elegante prosa di quarzo - diventa un perfetto, accordato, strumento di equivalenza verbale del fatto figurativo. Vibrano rinnovate in quella voce, le picche della guardia e il sedere del cavallo di Velazquez; l’anno 1642 nella vita di Rembrandt e “l’immersione dentro l’Umanità che è pensiero e azione, giovinezza gloriosa e malinconici pensieri, il mistero che incombe e la struggente bellezza del mondo dal quale è così doloroso staccarsi”; “la poesia della vita silenziosa” degli Arnolfini, il cui gesto di unione avviene negli amati “interni svelati di luce” e resi attraverso il “silenzio tutto nordico di questa camera foderata di legno”; l’Olympia sentita come idolo inaccessibile, enigmatica icona che “ci trasmette una specie di fascino ipnotico, di orrore sacro”, con “il gatto nero che si inarca sul letto come una presenza demoniaca” e “la serva negra che offre il bouquet di fiori”; il Picasso “sensuale e mediterraneo, quello dei ritratti di donne di tori, di centauri”, che riesce a fissare “lo splendore dell’eros, sulle donne, anche quando le dipinge con un occhio solo e tre nasi”; e, passando per la stupenda e spiazzante analogia tra l’Estasi di Santa Teresa di Bernini e i Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, Paolucci infine, arriva a parlare dell’autore d’elezione, la ‘dichiarata passione’ per Raffaello Sanzio: “Con il suo genio è riuscito a metabolizzare e trasfigurare tutto. Ha preso forme consegnate dalla tradizione, il linguaggio degli italiani, e l’ha trasformato, l’ha fatto suo, inventando la lingua di Raffaello che è il punto apicale della nostra lingua artistica. […] Vorrei avere, di Raffaello, il ritratto di Baldassare Castiglione, che è la raffigurazione dell’intelligenza e del gusto alla stato puro.”

Mi chiedo spesso perché, di tanti autori che scopriamo e che ci raggiungono in modi inattesi, durante la nostra vita, solo nel caso di poche presenze ci assale il desiderio feroce di tornare a riascoltarne la voce. Di abitarla come un luogo senza i cui confini e humus sentiremo che l’esistenza stessa sarebbe infinitamente più povera. Sembra che nel dialogo con le opere di questi autori, si apra uno spazio immutabile, dove tutto rimane fissato al giorno e all’ora particolari del primo incontro, come le sei del pomeriggio nella scena del tè del Cappellaio Matto. Talvolta cerco di spiegarmelo riaprendo Proust, in particolare quel passaggio dove spiega che i “luoghi che abbiamo conosciuti non appartengono solo al mondo dello spazio dove per semplicità li collochiamo. Essi non erano che una parte esigua del complesso di sensazioni confinanti che formavano la nostra vita d’allora; il ricordo di una certa immagine non è che il rimpianto d’un certo istante; e le strade, le case, i viali sono, ahimé, fugaci come gli anni.” Nel caso della voce di Antonio Paolucci, non mi è possibile ridurre l’impressione del primo contatto ad analisi razionale. Tanto la sua parola è coerente al pensiero, da cui è nutrita e strutturata, che finisce per costituire un’arte della conversazione e un abito della scrittura; un registro stilistico che appartiene al dominio tutto dell’onesto umanesimo italiano. Questa voce, figlia della lingua del Vasari e del Lanzi, accoglie gli oggetti delle belle arti, le opere e le vite degli artisti, fino ad assorbirle e metabolizzarle; per riconsegnarle infine, dopo un misterioso processo di trasformazione verbale, scomposte e rievocate in dettagli meravigliosi, animate da un palpito dello sguardo che è, prima di tutto, sentimento dello sguardo.

Antonio Paolucci, Arte e bellezza, collana orso blu, Editrice La Scuola, Brescia 2011, pp. 93, euro 10

                                           

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