20 aprile 2013

"Lorenzo Lotto" di Anna Banti



di Davide Pugnana

Fingiamo, per un momento, che intorno alla vita e all’arte di Lorenzo Lotto non sia stato scritto niente. Bene. In quest’atmosfera di volontaria sospensione, lasciamo che il senso di novità della lettura ci investa in tutta la sua forza e purezza, come accade per la prima volta ai lettori del 1953: anno in cui si ebbe finalmente cognizione della personalità e dell’opera di Lorenzo Lotto. Il primo merito di Anna Banti fu quello di aver portato Lotto fuori dalle mura inaccessibili della cerchia specialistica, ripulito di tutti in luoghi comuni depositati sulla sua figura da secoli di avversità e di oscuramento. L’idea di tornare ad immergere questo pittore veneziano del Cinquecento in una fittizia “sfortuna” critica diventa, per noi lettori di oggi, fortificati da una storiografia artistica munita di raffinati strumenti, più che un gioco di straniamento quasi la necessaria disposizione mentale per cogliere, in profondità, quell’effetto di riscoperta e di battesimo che rendono il saggio di Anna Banti tra i contributi più belli mai scritti su Lorenzo Lotto.

Siamo, quindi, nel 1953. A questa data, nell’immaginario collettivo italiano, Lotto figura quale malinconico e bizzarro pittore veneziano del XVI secolo, che, inquieto e ramingo per un dramma a metà interiore per l’altra storico-sociale, vive e lavora ritirato in varie provincie: dalla prova giovanile a Recanati alle Marche e a Treviso; a Bergamo, toccando Roma per un momento poi Jesi, Venezia per un periodo e, infine, Ancona. Da quest’angolazione periferica, Lotto pareva guardare quel fermento di maestri la cui dirompente “maniera moderna”, per usare un’espressione del Vasari, sentiva irraggiungibile e quasi temeva. Ma era, soprattutto, un’ombra d’infinita lunghezza quella che tallonava il pittore in ogni sua fuga: il fantasma psichico che non gli concedeva tregua, che lo visitava ogni notte, tenendolo come animale braccato: Tiziano. Venezia, al tempo di Lotto, era sotto l’egemonia del genio di Tiziano. Tutte le committenze più illustri si raccoglievano nelle sue mani. È vero, Lotto si è trovato a cadere in un secolo di vasi di ferro e a lui la storiografia – eccezion fatta per alcuni nomi -  fino al Novecento ha guardato come ad un fragile vaso di terracotta. Da qui muove la monografia di Anna Banti: riportando alla sua giusta luce storica, e dandole stabile quanto sfaccettato baricentro, questa dimensione di subordinazione e quasi rassegnazione, che riduceva Lotto a vittima funestata da destino avverso, incrudito da una natura aggrondata e malinconica da ‘nato sotto Saturno’: quello, insomma, di un pittore dall’operato eccentrico rispetto alle grandi fucine artistiche dell’epoca - Firenze, Roma, Venezia.   

Non era la prima volta che la penna della Banti dava corpo biografico-critico a vite di artisti dimenticati, obliati, segnati da nascita e destino saturnini, oppure tenuti fuori dal canone degli spiriti maggiori. Nel 1947, sei anni prima del saggio dedicato a Lorenzo Lotto, la scrittrice aveva già pubblicato il capolavoro per il quale è conosciuta: Artemisia, romanzo-saggio incentrato sulla biografia e l’opera di Artemisia Gentileschi, la pittrice che, proprio in questi ultimi anni, con sistematico rigore alcune mostre (ricordiamo, soprattutto, quelle di Milano e Parigi nel 2012 e quella pisana, a Palazzo Blu, tutt’ora in corso) vanno riscoprendo e valorizzando in tutta la sua complessa fisionomia umana e di poetica. Come per Artemisia così per Lotto: l’intento di fondo della ricerca di Anna Banti ha la stessa radice morale, ossia dare un contributo organico capace di sollevare la figura dell’artista dall’intermittenza delle “mezze parole”. Ossia: meglio sarebbe per un artista di genio l’essere dimenticato che inserito con reticenza, dalla storia e dalla critica, in una classifica di ‘primi’ e ‘ultimi’, di ‘maggiori’ e ‘minori’. L’immaginazione e la lingua pittorica di un artista del calibro di Lotto mal sopportano le “mezze parole”, i tentennamenti e il disorientamento degli studiosi, incerti se misurarne la tenuta avvicinandolo al fuoco di Tiziano o a quello di Raffaello e Michelangelo. Quando la Banti decise di scrivere su Lotto si trovò, prima di tutto, a dover fare i conti con questo clima di sospensione. Le sue armi in campo furono il talento narrativo, accordato su una prosa tersa, intessuta di sofisticata bellezza e cadenzata musicalità, intrecciato ad acume filologico certamente perfezionato e alimentato dal quotidiano confronto con Roberto Longhi. Il risultato è un saggio monografico contraddistinto da un serrato respiro esegetico; costruito unitariamente su una trama di fatti biografici e di analisi dei testi pittorici senza crepe né smagliature erudite, sempre tenuta sul filo di pagine improntate a un puro esercizio di scavo dell’occhio, portato ora sulle pale d’altare ora sui ritratti, e trasformato, infine, in cristallina pagina scritta. Ed è in questa culla di decifrazione visiva che rivive, oggi e tanto più ai lettori del 1953, l’intera produzione di Lorenzo Lotto.

Se nessun libro dedicato alle arti visive può esser letto senza l’equivalente di un catalogo delle opere, tenuto aperto di lato, sorta di sponda figurativa utile per un’immediata verifica di quanto gli occhiali dello studioso ci vanno ricostruendo, la monografia di Anna Banti fa di quest’assenza (il libro è privo di immagini) un punto di forza. Il suo testo si regge da sé; i dipinti di Lotto sono come assimilati e ricreati in virtù di una scrittura potentemente evocativa, mimetica, lirica, a tratti persino visionaria, tipica della linea degli scrittori d’arte italiani, a partire proprio da Roberto Longhi. In forza di questo, ai dipinti il lettore può andare in un secondo tempo, a libro chiuso, con l’occhio educato a cogliere gli elementi portanti della “lingua” espressiva lottiana, e quasi fatto esperto nel riconoscere le composizioni, i guizzi di tocco, il campionario di santi, adolescenti, angeli, sposi e brani di paesaggio, come cose familiari viste da sempre.
 
In questo attraversamento, il lettore è guidato lungo una linea di ricostruzione biografica imbastita su un asse cronologico lineare, scandito per “periodi” creativi, dove le date rispecchiano geografie mutevoli, provincie, città, casate, committenze; e su questo tronco principale spiccano affondi analitici, resi in forma di ekphrasis:  vertiginose digressioni filologico-descrittive nelle quali la percezione di sguardo raggiunge strati profondi  e inediti dell’opera.   

Questo saggio ci restituisce un ritratto in piedi di Lorenzo Lotto: conosciamo le pieghe nascoste della sua vita, dagli esordi alla vecchiaia; e, in esse, saggiamo i moventi del suo ritiro ai margini della provincia e la radice del suo “esilio volontario”, ben oltre lo spaventato appartarsi dai grandi maestri; dall’interno del suo processo creativo, ripercorriamo le tappe evolutive della sua lingua pittorica, opera dopo opera, secondo una biforcazione di “generi” che la Banti articola in pale d’altare e in ritrattistica.  Ma, al contempo, su un versante non meno importante, impariamo un metodo di lettura delle opere: quel modo di saper ricreare, quasi trasformare, linee, colori, spazi prospettici, in testo verbale.

Due esempi possono chiarire alcuni meccanismi portanti del ‘metodo’ di Anna Banti. Il suo approccio visivo alle opere di Lotto segue spesso un percorso narrativo nel quale l’occhio procede dall’esterno all’interno, dal margine dove, generalmente, l’osservatore non indugia: dalla parte alta della tela lo sguardo procede, palmo a palmo, in un progressivo avvicinamento al centro, dove è collocato il fuoco compositivo della scena. In questa ottica dell’opera, fatta racconto dell’immagine, i primi elementi ad essere registrati sono gli sfondi, i dati paesistici, tutto quanto il pittore scrive sull’orizzonte lontano che traspare dietro le sue scene: il paese. Il paese profondo, “ricchissimo di rocce, di alberi, di valli, di forre […] con fronde giganti e minute, rovinosi palinsesti  di rupi desertiche, un arido torrente sassoso, ogni cosa imbalsamata di eloquente silenzio”, del San Gerolamo penitente; oppure quello che si apre oltre la loggia dell’Annunciazione, dove “fiammeggia la luce adriatica di un parco che adriatico non è, ma piuttosto romano: col suo pino a ombrello, il suo cipresso non troppo acuto, la sua pergola: la stessa che gioca e scintilla in modo diverso sui ogni tondino vitreo della finestrella: un ricordo nordico”; o, ancora, un brano di natura percorso di “correnti luminose, leggero, alitante di contrasti delicati, di consonanze rapide” o “avvampato da un brivido di tramonto” che la sintassi della pennellate rapida e larga rende ora più corsivo ora più pausato.

Un ultimo appunto significativo riguarda quella dote che Italo Calvino definiva “esattezza” e che tanto più sentiva imprescindibile nell’uso del linguaggio critico. Accanto a questa capacità di registrazione lirica del paesaggio lottesco, Anna Banti ci consegna pagine caratterizzate da un registro di scrittura di così esatta intonazione lessicale da toccare gradi altissimi di trascrizione verbale del dato pittorico. Il caso più esemplare del saggio è la nominazione lenticolare, aderente, quasi scientifica, dei dettagli della Pala di Santo Spirito.

Vale la pena isolare la citazione; leggerla come un campione testuale assoluto e paradigmatico della scrittura d’arte di Anna Banti. Poi dobbiamo alzarci e metterci davanti al quadro per diversi minuti. Poi tornare a sedersi e questa volta ad occhi chiusi farci leggere nuovamente la pagina: “Come si dipingerà, fra un secolo, un foglio di musica scartocciato e mantenuto fermo sotto una luce e un vento di temporale; o lo sciorinarsi pericolante di un inquarto affidato a un sostegno troppo fragile; la innumerevole disparità nei pèneri battuti dalla stesse luce; l’incider dell’ombra di un gomito su un’anca, di una canna sul terreno; un sole di maggio frizzante in rosa e perla sulle carni a boccio di un fantolino: ecco indicazioni da raccogliersi a una prima occhiata sulla Pala di Santo Spirito.”

Anna Banti, Lorenzo Lotto, Skira, 2011, euro 9,00 

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