02 aprile 2013

"La traduzione" di Luciano Luciani


Bella e infedele


Mi fece sorridere negli anni del liceo, il professore, che, alle reiterate richieste di noi studenti intorno alla spinosa questione di criteri certi per tradurre dalla lingua di Cicerone in quella del Manzoni, rispose con un quesito, ponendoci di fronte a un dilemma di non poca lena: “come la volete la fidanzata, brutta e fedele, oppure infedele ma bella?

È molto probabile che nel corso degli anni della scuola superiore la strategia traduttiva, mia e dei miei compagni di classe, non sia andata oltre una fidanzata e infedele e brutta: però, quella figurazione riuscì, con la nettezza propria delle immagini tratte dalla vita vissuta, a renderci, sinteticamente, tutte le fatiche della traduzione, una vera e propria scienza interdisciplinare che si muove tra la storia e la filologia, le letterature comparate e la filosofia, la linguistica e la lessicologia…

Operazione complessa e delicata, la traduzione! Perché, se è ormai acquisito che una lingua corrisponde alla visione del mondo di chi la parla, è altrettanto vero che, come afferma Pasolini, “la lingua è scura / non limpida” e questo ben lo sanno i professionisti della traduzione, i traduttori sempre alle prese col dilemma così plasticamente espresso dal mio docente liceale.

Tradurre un testo parola per parola o intenderne il senso? Limitarsi a volgere da una lingua all’altra ciò che l’Autore ha scritto o rendere quanto il traduttore, in scienza e coscienza, pensa che l’Autore abbia inteso esprimere?

Operare letteralmente e lasciare al Lettore il compito di individuare il senso e il significato complessivi di un testo, o interpretarlo, il testo, e fornire al Lettore un elaborato più comprensibile, ma sicuramente meno fedele all’originale?

Favorevole alla seconda opzione Voltaire che, con la nettezza che gli era propria, nelle Lettere filosofiche scriveva: “Guai a quelli che fanno traduzioni letterali e traducendo ogni parola snervano il significato. È  ben questo il caso di dire che la lettera uccide e lo spirito vivifica”.

Certo, ci perdonino i filologi, le traduzioni più belle sono quelle analogiche, emotive, istintive: penso, per capirci, alla traduzione, bella e infedele tanto per rimanere alla metafora iniziale, dell’Orestea di Eschilo realizzata da Pasolini per Gassman nel 1960; oppure, sempre in quegli anni sessanta, alle Troiane di Euripide rilette e tradotte a opera di Sartre, l’una e l’altra dense di appassionati sensi civili. Ma anche qui, attenzione: la storia dell’Ottocento e del Novecento ci presenta non pochi casi di guerre scoppiate per le differenti interpretazioni nelle diverse lingue di fragili trattati politici e diplomatici.

Non sono pochi, poi, gli studiosi e i letterati che sono arrivati a sostenere l’assoluta specificità di ogni lingua e quindi la loro sostanziale intraducibilità: su questa lunghezza d’onda troviamo fin dal XIX secolo uno scrittore come George Borrow (1803 - 1881), secondo il quale “la traduzione è nel migliore dei casi una eco” e, un secolo più tardi, Virginia Woolf (1882 – 1941): “l’umorismo è la prima qualità che va persa in una lingua straniera”. Intraducibili dunque le lingue? No, ma onore al merito alle abilità e alle competenze di quei veri e propri ‘autori invisibili’ che sono i traduttori trascurati dai recensori, maltrattati dagli editori, ignorati dal pubblico. È grazie alle loro fatiche, né piccole né poche e spesso malpagate, che è possibile mantenere il necessario rapporto di osmosi tra le letterature di tutto il mondo, permettendo così a noi lettori di godere delle invenzioni romanzesche e dei corti circuiti poetici degli artisti della parola di ogni area e lingua del pianeta.



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