24 febbraio 2013

"Dall’esilio" di Iosif Brodskij






di Davide Pugnana

“Scrivo ancora versi, non ne ho perso il gusto. La passione
di scavare lungamente in una breve linea di scrittura -
colosso dall’apparenza molto tenue - rivela uno sregolato
attaccamento a tutto (conoscenza, amore, vita, mondo, Dio)
ma il risultato non è buono se non si misura subito, nel verso
compiuto. Forse c’è là, nel groviglio delle vite, qualcuno che
aspetta di ricevere i nostri versi per mangiarne la luce e fortificarsi,
indebolendo la morte, allontanando per un attimo la paura? 
Mi succede sovente si pensare che sia così.”
(Guido Ceronetti, Poesia chiara poesia oscura)


I discorsi scritti dai poeti in occasione del conferimento del Premio Nobel racchiudono folgoranti bilanci di poetica. E nonostante questa meditazione sull’arte racchiuda quasi tutto il senso di una vita ciò non è ancora abbastanza. Su quella decina di pagine, vergate in una bellissima luce dilatata tra vissuto e presente, così lucidissima e postuma nel piovere sugli oggetti interni, così impastata nella memoria di lontananze siderali e di struggente disincanto, proprio in quel giro di otto, novecento parole si fissa, una volta per sempre, l’idea totale che della letteratura, della sua natura e della sua ragion d’essere, un artista ha inseguito ed elaborato lungo tutta una vita, spesso a prezzi altissimi. In testi di questo tipo non si tratta di stilare un consuntivo di poetica o una definitiva planimetria delle proprie pubblicazioni. C’è in essi un tale spessore evocativo, unito ad una potente luce d’intelligenza e ad una visiona postuma di sé, che li avvicina al valore di un testamento spirituale. Davanti a questa confessione preziosa, che l’ufficialità dell’evento e della lettura in pubblico trasformano in “documento”, si ha quasi l’impressione che il premio Nobel per la letteratura - e Brodskij lo dirà apertamente - sia una sorta di invenzione, di passepartout creato a bella posta da coloro che, tagliati fuori dai segreti della creazione artistica, desiderano carpire strenuamente il fondo oscuro dell’arte, come instancabili segugi. Allora quale esca migliore per catturare i segreti più intimi di un poeta che tendergli un premio capace di innalzarlo allo statuto di “classico” in vita?

Iosif Brodskij si trovò a tracciare queste pagine nell’autunno del 1987. Scrisse tre discorsi memorabili e definitivi,  raccolti in uno smilzo ma densissimo volume. Dall’esilio (Adelphi, 1988, pp. 68, euro 7,65) è il titolo che funziona come una cerniera che tiene unito il trittico formato da una pala centrale e da due ante laterali. “Un volto non comune” è il discorso per il premio Nobel. Partiremo da qui per avvicinarci al cuore pulsante di questo poeta russo dall’esistenza difficile. Brodskij fu anche uomo oltre che poeta. Non è un paradosso. Egli non ricevette in sorte un’agiata esistenza borghese. Nelle pieghe dei suoi versi di marmorea bellezza classica sono passati i mestieri più disparati: il fresatore in una fabbrica di Leningrado; l’addetto alle caldaie in un bagno pubblico; l’assistente in un anfiteatro di anatomia; l’operaio avventizio per una missione di geologi in Siberia; e tra queste navigazioni possiamo inserire anche il nomadismo, a piedi tra Russia e Asia Centrale o arrampicandosi sui ghiacciai del Pamir senza provviste e senza attrezzatura alpinistica. In tanto dinamismo Brodskij riuscì a trovare il tempo di istruirsi, imparando numerosissime lingue e giungendo a conoscere alla perfezione l’inglese e il polacco; e ad impegnarsi nella militanza politica, aderendo al realismo socialista del suo tempo. L’uomo esplorò la sua condizione fino in fondo: lavorò, studiò, militò, coltivò gli ideali buoni della sua generazione, e fece in tempo a farsi arrestare con l’accusa di “parassitismo”, quindi ad essere spedito in un ospedale psichiatrico e poi al confino in una lontana regione del Nord, per scontare cinque anni di lavori forzati. Nella sua vita Brodskij provò quell’esperienza della persecuzione tout court che lo rese un autentico personaggio kafkiano. Occorrerà aspettare il 1989 per vederne la “riabilitazione”. Questo è l’uomo che miracolosamente è riuscito a sopravvivere. Il poeta continuò ininterrottamente il suo lavoro di scavo dentro grandi temi metafisici ed esistenziali. Ed è singolare che di tanta variata e inaudita materia biografica non ritroviamo che un pulviscolo di  vicende sparse in versi di classica perfezione. Al Brodskij poeta interessava la tenuta e la purezza della difficile e calibrata arte della versificazione. Egli sapeva bene che il testo poetico sarebbe stata la vera forma con la quale la Storia l’avrebbe ricordato. Se la vita quotidiana trasvolava tra bordi sfrangiati e precipizi spalancati sull’assurdo, all’opposto la ’vita in versi’ andava costruendo un abito di bronzo imperituro, inciso di assimilazioni classiche; di dialogo con la tradizione; di recupero di un senso arcaicizzante, lavorando a innovare strutture metriche come odi, ballate, elegie; e di segreto nutrimento nella pratica di lettura e traduzione di poeti metafisici inglesi del XVII secolo, quei John Donne e Andrew Marwell dai quali Brodskij imparerà a trasformare il suo pensiero in materia da poemi. Non stupisce che proprio la fama di Brodskij abbia ricevuto il sacro battesimo di W.H. Auden, all’epoca vero e proprio classico vivente della letteratura inglese.

“Per una persona dedita alla vita privata, per uno che ha sempre preferito la sua dimensione privata a qualsiasi ruolo pubblico e che nell’esercizio di questa preferenza si è spinto piuttosto lontano - lontano dalla sua madrepatria, per non dire altro, giacché è meglio essere l’ultimo dei falliti in una democrazia che un martire o la crème de la crème in una tirannia - per un individuo simile trovarsi all’improvviso su questa tribuna è un’esperienza un poco imbarazzante e non poco impegnativa.”. Con questo disarmante pudore esordisce Brodskij, davanti a quel premio che gli chiede la confessione più difficile della sua vita. Il suo primo pensiero è verso “coloro cui questo onore non è toccato, cui non è data la possibilità di parlare  urbi et orbi, come si dice, da questa tribuna.” E chi sono questi spiriti magni tagliati fuori dalla tribuna del Nobel? Sono i grandi poeti contemporanei morti da tempo, i nomi dei quali Brodskij scandisce con commosso tenore dantesco: “Osip Mandel’stam, Marina Cvetaeva, Robert Frost, Anna Achmatova o Wystan Auden”: ombre che lo circondano con la loro grandezza e lo turbano perché “essere migliore di loro sulla pagina non è possibile infatti; né è possibile essere meglio di loro nella vita reale.[…] se l’altro mondo esiste, spero che essi mi perdoneranno, me e la qualità di quello che sto per dire: in fin dei conti, non è dal modo di comportarsi su un podio che si misura la dignità della nostra professione.” Con queste parole d’esordio, Brodskij ci ha lasciata la più alta prova di (auto-)coscienza letteraria, di confessione dei propri debiti artistici, e, soprattutto, il raro esempio di un elogio del valore artistico dei propri contemporanei. Tre livelli la cui statura e qualità etica valgono bene un premio Nobel. Quali sono le osservazioni messe in campo da Brodskij? Quali sono le idee che ha maturato sulla “natura” del mestiere di scrivere? Come si fa a squadernarle glissando il pericolo di ridurle a “sistema”?
La prima funzione dell’arte è quella di insegnarci qualcosa sulla “dimensione privata della condizione umana”. L’impulso primario alla creazione artistica nasce dall’atto di un “Io individuale” che il poeta non desidera condividere con la società, e anzi sottrae allo sguardo dell’altro; ma che, almeno in un primo momento, intende come ricerca sacra (ossia separata e nascosta) di una costruzione di orizzonti di senso; come pulizia nell’interiore materia di “immondizia” (il sostantivo è dell’Achmatova) che lo abita e che chiede un baricentro. “Un’opera d’arte, in special modo un’opera letteraria e una poesia in particolare, si rivolge all’uomo tete-à-tete, stabilendo con lui rapporti diretti, senza intermediari di sorta.” Rientra nel quadro di questa riflessione sulla gestazione poetica l’origine del titolo scelto da Brodskij per il suo discorso: il poeta Baratynskij attribuiva alla propria Musa “un volto non comune” ed è questo il profilo sfuggente su cui il poeta russo ha orientato il suo scavo al fondo dell’esistenza umana. Per noi che viviamo nella privilegiata prospettiva storica dei posteri, il Novecento è stato un secolo generoso di personalità altissime. Mentre nel Trecento, nel Cinquecento e ancora nell’Ottocento, i poeti di genio si contavano a mala pena sulla punta delle dita, di fronte alla sterminata fucina di poeti del XIX secolo ogni tentativo di mappatura delle poetiche lascia fatalmente dietro di sé odiose lacune e voci fuori dal coro. Brodskij, come Pasolini e Paul Celan, è caduto dentro un secolo terribile, nel quale più volte la poesia è stata messa in crisi e data per morta, come recitava lapidaria la sentenza di Adorno: “scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto possibile scrivere poesie.” Malgrado il pessimismo del filosofo, poeti come Brodskij, Mandel’stam, o Ungaretti e Quasimodo da noi, non hanno mai perduto il senso di resistenza etica. Nessuna concezione della poesia può essere messa sotto accusa: i grandi autori non sono mai stati tanto poeti quanto in tempo di precarietà, di crollo dei paradigmi umanistici e di perdita delle certezze storiche. Questo dato di fatto è talmente ficcante da diventare il cuore geometrico del discorso di Brodskij: “Il vero pericolo per uno scrittore non è tanto la possibilità (e non di rado la realtà) di una persecuzione da parte dello Stato, quanto la possibilità di farsi ipnotizzare dalla fisionomia dello Stato, una fisionomia che può essere mostruosa o può cambiare verso il meglio ma è sempre provvisoria. La filosofia dello Stato, la sua etica - per non dire la sua estetica - sono sempre ’ieri’. La lingua e la letteratura sono sempre ‘oggi’ e spesso (specialmente nel caso in cui un sistema politico sia ortodosso) possono addirittura costituire il ’domani’. Nessun poeta, messo davanti alla necropoli del “secolo breve”, si è piegato alla tentazione di fregiarsi “del titolo onorifico di ’vittima della storia’; la sua ricerca anzi si è sempre orientata verso la costituzione di un senso capace di restaurare quegli strappi feroci che la mano della Storia aveva lasciato sul corpo dell’uomo. La poesia del Novecento non ha mai giudicato gli oppressori secondo criteri di semplice moralità: tenendosi in uno spazio premorale ha cercato con lucidità di metterne a nudo le ragioni oscure di violenza e di distruzione. Ne è un esempio l’intera produzione scritta di Primo Levi. Dalle sue pagine Brodskij ce lo spiega così: “Possedendo una genealogia propria, una sua dinamica, una sua logica, un suo futuro, l’arte non è sinonimo di storia, ma nel migliore dei casi corre parallela alla storia; e può esistere solo creando continuamente una nuova realtà estetica. Ecco perché si scopre spesso che l’arte è ’in anticipo sul progresso’ - non dovremmo correggere Marx una volta di più? - è esattamente un cliché.” Se apriamo la raccolta di poesia di Trotskij e andiamo a leggere ciò che scriveva durante gli anni delle persecuzioni e del processo del 1964 del quale fu ingiusta vittima, troviamo versi innervati di una linfa vitale meravigliosa, come questo squarcio notturno che ha la luce di una ronda di Rembrandt: “L’uomo riflette sulla propria vita,/ come la notte sulla lampada. A un momento dato/ oltrepassa i confini di uno dei due emisferi/ del cervello il pensiero, scivola come una coltre, / denudando qualcosa, forse un gomito; la notte/ è ingombrante, questo è vero,/ ma non così smisurata da pensare che ricopra/entrambi gli emisferi. E l’asia e l’europa/ del cervello, e le altre gocce di terra in mare, e l’africa/ a poco a poco scricchiolano sull’asse secca, ruotano,/ esibendo la loro vizza  gota,/ verso l’airone elettrico.” (Ninnananna di Cape Code). Perfino in quegli anni terribili, Brodskij fu capace di una resistenza in versi di questa levatura: “Metti in serbo per le stagioni fredde/ queste parole, per le stagioni dell’ansia!/ Come il pesce sulla sabbia, l’uomo sopravvive:/ se si strascina agli arbusti e s’alza/ su gambe incerte e storte va, come un rigo di penna, / nelle viscere stesse della terra.// Esistono leoni alati, sfingi col seno/ di donna, angeli in bianco e ninfe del mare:/ a colui che sostiene sulle spalle il peso/ di buio, caldo e - oso dirlo - dolore, / sono più cari gli zeri concentrici nati/ da parole gettate.” Il premio Nobel vinto da Iosif Brodskij non è un trionfo individuale, ma collettivo, diremo di una genia benedetta ed eroica. È  il Nobel guadagnato da tutta la generazione di poeti del XIX secolo, e dei poeti russi in particolare, che egli ricordava ad apertura di discorso e che torna a richiamare nella chiusa, tracciando le linee portanti di un’autobiografia umana e intellettuale: “Questa generazione - la generazione nata proprio nel momento in cui i forni crematori di Auschwitz lavoravano in pieno regime, in cui Stalin era allo zenit del suo potere divino, così assoluto da sembrare avvallato da Madre Natura in persona - questa generazione è venuta al mondo, si direbbe, per continuare quello che, in teoria, doveva interrompersi in quei forni crematori e nelle anonime fosse comuni dell’arcipelago staliniano. Il fatto che non tutto si sia interrotto - almeno in Russia - è un merito che va attribuito in misura non trascurabile alla mia generazione; e io sono fiero di appartenerle.”

A lato di questo abbagliante pannello centrale troviamo La condizione che chiamiamo esilio, una manciata di pagine nelle quali Brodskij deposita un ulteriore, e se vogliamo più impalpabile, elemento della sua ricerca esistenziale condotta per via di ostinato e severo scavo poetico. Questo anello è la permanente condizione di esilio. Esilio non tanto fisico e biografico, storicamente determinato da un cambio di geografia e da una perdita della terra d’origine. Esiste un sentimento dell’esilio che difficilmente le parole possono raccontare, raggiungere e sagomare in un senso rotondo. Spesso ne troviamo traccia nelle liriche di Brodskij: “Mettiti in una nicchia vuota e, rovesciando/ gli occhi, guarda svanire dietro l’angolo/ i secoli, e il muschio ricoprire il ventre/ e le spalle la polvere, tinta del tempo.” (Torso); “Là, oltre il nulla, oltre il confine estremo,/ - nero, incolore, ma chissà, forse bianco - / c’è qualcosa, un oggetto./ Un corpo forse. Nell’èra dell’innesto a frizione/ la luce viaggia alla velocità della visione,/ persino quando a noi risulta spenta.” (Laguna). È l’esilio costitutivo dei temperamenti poetici, le cui propaggini si perdono in una profondità interna e ontologica che la rendono categoria metafisica e scenario malinconico. Dall’esilio è tuttavia un titolo parlante e rivelatore: la scelta strategica di un complemento di luogo in forza di uno di specificazione (Dell’esilio) evita la trattazione distaccata di un tema per mettere letteralmente in moto una voce animata dal desiderio di giungere a noi come portata da una folaga narrativa che, per quanto obliqua e difficile, non si avverte impossibile. Che cosa ci porta la voce di Brodskij dall’esilio? Un imperativo etico ed estetico, nel cui fuoco l’uomo e il poeta diventano un’entità senza possibilità di fratture: parlare. È questo il verbo magico che ricorre a definire questa sfuggente “condizione”, psichica e metafisica, cui diamo il nome di “esilio.” Di questo “interno paese straniero”, come lo definì Freud, parlano gli scritti in prosa di Iosif Brodskij.

Tra i tanti passaggi sottolineati a matita in questa serata di fiaba e di neve nell’ultimo scorcio di febbraio, vorrei trascriverne uno che si manifesta con la cifra di un exemplum e di un attualissimo monito: “Eppure dobbiamo parlare; e non solo perché la letteratura, come i poveri, è notoriamente portata a prendersi cura dei propri figli, ma più ancora per via di un’antica e forse infondata convinzione, secondo la quale se i padroni di questo mondo avessero letto un po’ di più, sarebbero un po’ meno gravi il malgoverno e le sofferenze che spingono milioni di persone a mettersi in viaggio. Poiché non sono molte le cose in cui riporre le nostre speranze di un mondo migliore, poiché tutto il resto sembra condannato a fallire in un modo o nell’altro, dobbiamo pur sempre ritenere che la letteratura sia l’unica forma di assicurazione morale di cui una società può disporre; che essa sia l’antidoto permanente alla legge della jungla; che essa offra l’argomento migliore contro qualsiasi soluzione di massa che agisca sugli uomini con la delicatezza di una ruspa […] Dobbiamo parlare perché dobbiamo dire e ripetere che la letteratura è una maestra di finesse umana, la più grande di tutte, sicuramente migliore di qualsiasi dottrina; dire e ripetere che, ostacolando l’esistenza naturale della letteratura e l’attitudine della gente a imparare le lezioni della letteratura, una società riduce il proprio potenziale, rallenta il ritmo della propria evoluzione e in definitiva, forse, mette in pericolo il suo stesso tessuto. Se questo significa che dobbiamo parlare di noi, tanto meglio: non già per noi stessi, ma forse per la letteratura.”                               

Iosif Brodskij, Dall’esilio, Adelphi, Milano 1988, pp. 68, euro 7,65

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