21 febbraio 2013

"Cime tempestose" di Emily Brontë.

di Gianni Quilici

Ciò che affascina in Cime Tempestose
è l'estremizzazione dei sentimenti:
un sentimento di vendetta  spietato
in una personalità velenosa,
segnata da una ferita d'amore,
che ha la  radice in una discriminazione sociale;
e questo sentimento d'amore,
che va oltre la  morte,
diventa quasi mostruosamente metasifisico.
Tutto narrato a distanza,
  attraverso due personaggi  del  romanzo,
  in un paesaggio di venti, di nuvole basse...



   Caro Gianni,


    da questa tua acuta e profonda riflessione vengo a sapere che condividiamo anche questa passione per la narrativa della Bronte. "Cime tempestose" è un romanzo che ho amato molto e molto odiato, come tutti gli oggetti d'amore investiti di una passione estreme e totalizzante, e, proprio in forza di questa assolutezza e totalità, trasformati in idoli inaccessibili. L'odio nasceva, nel caso di una creatura di carta, dall'abbagliante perfezione della sua forma e dalla sostanza sfuggente dei suoi personaggi. Il mondo ctonio in cui Emily immerge Heathcliff e Catherine, legandoli ad un filo destinale terribile e autodistruttivo, è qualcosa di talmente tentacolare e complesso che a mala pena cede parte del suo segreto.



 Odiosa e parziale controfigura è il tentativo di visualizzare questo magma in una pellicola cinematografica. "Cime tempestose" fa parte di quel manipolo di romanzi irriproducibili in forme visive; il loro dominio non è lo sguardo, ma l'introspezione. Penso a opere come la "Recherche" di Proust o "Viaggio al termine della notte" di Céline. E non li cito a caso, perché l'unico frutto creativo di Emily è una purissima secrezione dell'inconscio, un cordone ombelicale i cui meandri e meccanismi sono divenuti, dentro quegli attimi creativi miracolosi e mai più raggiunti, entità testuale.


 Per questo suo fondo moltiplicato e franto in vincoli oscuri e vertigini, "Cime tempestose" è un romanzo le cui laceranti polarità diventano campo di tensione nel lettore: non esiste disinfettante critico contro l'impasto di amore e odio, luce e tenebra, creazione e distruzione, perfezione e notturno smarrimento che trasudano da ogni pagina. Ancora oggi, stupisce e atterrisce quel mistico tocco che in un giorno del 1847 è sceso a baciare la mente di Emily Bronte, questa semplice e oscura fanciulla di provincia ferita e stuprata per mesi dal genio che è stato dei tragici greci e di Shakespeare e che sarà di Dostoevskij e di Freud: ossia quella facoltà di leggere al fondo dell'insondabile natura umana, traendone una visione universale, impermeabile allo sciamare del tempo storico e delle generazioni; racchiusa e incisa come un rebus di pietra in un geroglifico.

Questo è "Cime tempestose": un morbo chiuso in un marmo bellissimo, con i suoi due personaggi più vivi delle persone reali, pronti ad urtarci, a sfidarci e a fissarsi sulla nostra pelle come cicatrici di una dissociazione folle, simile a quella che dilania il Jekyll di Stevenson. Heathcliff e Catherine non esistono l'uno senza l'altro, sperimentano una condizione fusiva della cui terribilità siamo subito avvertiti. Sono un'entità unica. La loro reciprocità ci appare insieme familiare e straniera, perché sembra abitarci dentro da sempre. Essi si muovono e ragionano con la stessa logica dell'inconscio che proprio quando ci sembra di aver capito e abbracciato dobbiamo ricominciare daccapo a inseguire.

A metà Ottocento e con un'opera sola, Emily Bronte è riuscita a dare corpo a questo scenario fantasmatico plurale e vacillante che ci abita come un nemico. Malgrado siano passati anni dalla prima lettura e gli strumenti si siano affinati, l'amore e l'odio che mi assalgono davanti a questa meravigliosa macchina è rimasto intatto, sebbene si sia temperato nella disciplina e nell'educazione di altre letture.

 Il meglio che sia stato scritto sopra questo misterioso romanzo è scaturito dalle penne di Mario Praz e di Georges Bataille. Entrambi contribuiscono a rischiarare, con nostro sollievo, alcuni lembi di questo continente frustato da passioni e mali terribili. Nella sua "Letteratura inglese dai romantici al Novecento" (Sansoni, 1967) Praz ci avverte che "ai personaggi della Bronte non è applicabile l'ordinaria antitesi tra bene e male." Le loro passioni devastatrici hanno il libero passo selvaggio (cioè eccentrico rispetto alle convenzioni e alle leggi stipulate dal vivere civile) dei cieli che li sovrastano e dalle lande che li circondano. Essi "non si pentono mai dei loro atti di distruzione", e, malgrado ciò, non ci sentiamo di definirli "cattivi", né possiamo dire che siano al di qua, o al di là, del bene e del male. "Il punto di vista di Emily Bronte non è immorale, è premorale", scrive sempre Praz. Così come "premorale" (ce lo insegna la psicoanalisi) è il primo tempo dell'amore: l'odio, questa molla originaria che scavalca qualsiasi maschera di civiltà e qualsiasi forma di educazione delle pulsioni. Emily arriva al midollo del sottosuolo. Non solo: a questo magnetismo del binomio Heathcliff/Catherine soggiaciono tutti gli altri personaggi del romanzo e la loro maledizione si riverbera sulle spalle della successiva generazione, in una catena oscura e pausata di ire e odi che sembra non doversi spezzare mai. Il genio di Emily è stato quello di saper trattare una materia tanto incandescente e pericolosa con mano da chirurgo e mente ordinatrice; questa maestria la si coglie soprattutto dall'intelaiatura del romanzo "logico come il profilo d'una fuga musicale", figlio nel suo dna della tragedia e del poema epico più che del romanzo ottocentesco.

Un ulteriore chiarimento viene da Bataille, che apre "La letteratura e il male" (SE, 2006) proprio analizzando il romanzo della Bronte come vertice di una piramide che comprende Baudelaire, Michelet, Blake, Sade, Proust,, Kafka e Genet. Ne viene fuori un capitolo in cui non una parola si deposita superflua e dove ogni passaggio concettuale è serrato e pulito. Georges Bataille, il sublime e maledetto Georges, si ficca sottopelle: vuole capire perché Emily abbia avuto in sorte il dono di capire così in profondità il Male, come toccherà ad un'altra Emily della letteratura, la Dickinson.

L'anagrafe e la sparuta cronaca biografica è disarmante: Emily Bronte ha vissuto trent'anni appena e non è mai andata oltre la canonica dello Yorkshire; il suo campo visivo ha spaziato nel limitato recinto del luogo, tra la campagna e le lande, privato della dolcezza materna e focalizzato sull'unico polo paterno, incarnato da un rude pastore irlandese. "Visse in una specie di silenzio, rotto soltanto esteriormente dalla letteratura." Emily ignorava "in modo assoluto l'amore". Bisogna allora seguire Bataille e scavare nell'infanzia, nella ragione, nella trasgressione, nel misticismo senza consolazione; occorre appuntire passaggi analitici come pugnali spinti al cuore dell'infanzia e nella maturità di Heathcliff e di Catherine, e poi seguire gli effetti della loro separazione nella morte per portarne alla luce tutte le oscurità inconsce, tutta la contaminazione, tutto il destino feroce. E questo lo ha saputo fare solo Bataille. Ferisce ancora oggi guardare dentro questo nodo. Ferisce perché la sua visceralità è attualissima. Emily, l'inesperta dell'amore, seduta nella penombra di una canonica rotta dai bagliori del suo genio, ci ha lasciato il groviglio più inconfessabile di questa condizione: "quella conoscenza che connette l'amore non soltanto con la chiarezza, ma anche alla violenza e alla morte - perché palesemente la morte è la verità dell'amore. Come l'amore è la verità della morte." Il risvolto oscuro e violento dell'amore unito e nutrito dal Male tornerà a scandire una celebre strofa della "Ballata del carcere di Reading" di Oscar Wilde: "eppure ogni uomo uccide ciò che ama. C'è la carne, la morte e i diavolo in ogni riga del romanzo: c'è dolore, erotismo e oscurità lacerante, premuti dentro e inespressi, quasi impossibili a tradursi in azione, nei cuori sconvolti dei due personaggi. C'è una lotta di inconsci che ingloba, o investe, anche il paesaggio del romanzo, e ogni lettore avverte quest'assenza di baricentro psichico nei personaggi; ma non si riesce a dargli un senso fino in fondo e tutto lo sviluppo rimane per lo più innominabile. Innominabile eppure in bilico sul filo delle labbra, pronto a slanciarsi all'esterno. Almeno fino a quando non leggi Bataille; allora molti versanti - non tutti, perché il romanzo non cede i suoi segreti che in minima parte - si ricompongono sotto una luce cartesiana, mirabilmente gettata su di una materia tanto difficile (perché spesso preda della retorica) come il Male. Come il Male, aggiungerei, quando non si vuol vedere intrecciato all'Amore.
                                                                          Davide Pugnana


Emily Brontë.  Cime tempestose. Garzanti 





 

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