20 novembre 2012

"Vanagloria" di Hans Tuzzi



di Mirta Vignatti

Mi sono avvicinata a questo autore e a questo libro che ritengo così importante per un fatto che potrebbe far sorridere: ho un caro amico, pittore molto noto a Trieste, che si chiama Adriano Bon, esattamente come il buon Hans Tuzzi, che questo alias ha scelto (in omaggio a Musil) forse per scindere la sua presenza nel mondo delle lettere dalla sua figura di docente universitario. Tanto per dire come a volte gli incontri con i libri (almeno nel mio caso) possano anche seguire percorsi insospettabili e alquanto bizzarri.
 
Dicevo che ho trovato “Vanagloria” un libro importante. Un libro necessario, aggiungerei, che fa riflettere e ripensare in termini critici la deriva sociale cui stiamo assistendo da ormai troppi decenni e che avvilisce coscienze ed esistenze. Senza tema di smentita, si potrebbe definire il romanzo un moderno “Satyricon” che denuncia la torbida decadenza di questi anni, lo smottamento di terreni che ci illudevamo fossero solidi o stabili, e che invece ci fanno precipitare e ci trascinano via, in un tourbillon di fastose oscenità, di gaie trasgressioni, di corruzione, di arrivismo, di volgarità, di totale assenza di valori reali. Insomma, “ballando ballando” (e anche bevendo, come non ricordare la “Milano da bere”?), in questo Titanic dal naufragio annunciato Tuzzi ci fa percepire il tanfo di marcio, il lezzo di sentina che proviene dalle stive e gli inquietanti giri a vuoto di un motore ormai imballato. E se i padroni del vapore sono (nei 4 anni di stesura del libro, ora già ex) un premier che l'autore chiama Papunà e una sindachessa che “non sa parlare”, c'è ben poco da sperare: andando di questo passo, la metafora del relitto della Costa Concordia, che espone ciò che resta dei suoi muscoli d'acciaio all'isola del Giglio, sarà ben poca cosa al confronto.
 
Più che i Fruttero e Lucentini de “La donna della domenica” (citati da Tuzzi) -come recita la fascetta a firma Corrado Augias-, a me questo libro -che non esito a definire grandioso- ha fatto venire in mente per certi versi “Fratelli d'Italia” di Alberto Arbasino, di cui Tuzzi avrà sicuramente tesaurizzato tutte e tre le edizioni, da buon collezionista e bibliofilo quale è. Come in Arbasino, leggendo “Vanagloria” ritroviamo lo stesso sottofondo di ininterrotto cicaleccio dei tanti personaggi, quel ricorso al “parlato” riportato in presa diretta, i botta e risposta fatti di ammiccamenti, giudizi icastici, quel “castigat ridendo mores”- lieve, peraltro, in Arbasino, tendente invece al tragico in Tuzzi. E ad Arbasino -per estensione- aggiungerei il dimenticato Luciano Bianciardi de “La vita agra”, se non altro per gli stessi sentimenti di corrivo livore nei confronti di certo “calvinismo” meneghino -di cui non resta qui che la parodia triste- unito al culto dell'apparire, già al suo apice negli anni '60 e ora al di là di ogni etica ed estetica. (Oltre agli abiti dei personaggi altolocati, rigorosamente firmati, le automobili qui sono sempre e soltanto mega-bestioni Suv, BMW e Mercedes alto di gamma, contrapposte a meschine Punto “color padella”). Leggendo “Vanagloria” ritroviamo le coordinate di quel paesaggio sociale, politico, morale ancor più desolatamente corrotto e inquietante cinquant'anni dopo la dura metafora bianciardiana, e Milano viene re-identificata come città-emblema di tanta decadenza: Tuzzi (è la sua città e la conosce bene) ce la tratteggia suscitandoci sentimenti di amara e impotente rabbia. La cosiddetta “capitale morale”, derisa fin dal nome -Paneropoli-, è vista storicamente dall'autore come la sede dove, non a caso, si sono verificati nel tempo gli sciagurati colpi di coda della borghesia italiana (fascismo, craxismo, berlusconismo), e di questa borghesia “Vanagloria”, in senso figurato, scrive ora l'epitaffio sulla tomba. La visione d'insieme è decadente e pessimistica, e non vengono offerti segnali di una possibile rinascita o di un'inversione di rotta. Tuzzi presenta infatti uno spaccato della Milano a cavallo del nuovo millennio, descritta attraverso microstorie che hanno come protagonisti docenti universitari, antiquari, dirigenti bancari, avvocati, medici, editori, costruendovi intorno un romanzo polifonico, corale e ricco di intrecci; Tuzzi stesso vi si mette in gioco (lui, così esperto in alias) mimetizzandosi in alcune caratteristiche di più di un personaggio, e cerca di rendere al meglio questo allegorico affresco sociale arricchendolo anche con la sua scrittura aforistica e con l'ironia unita al paradosso. E se a volte alcuni passaggi del romanzo possono far sorridere il lettore, se le battute pronunciate da qualche personaggio colgono il segno, il clima descritto resta comunque tragico e non c'è traccia di speranza: soltanto una livida episodica disperazione riesce a dare un qualche spessore a certi personaggi nati inesorabilmente “piccoli piccoli” e nutriti solo di squallide meschinità, se l'unica grandezza alcuni finiscono per acquisirla soltanto con la morte. Come detto, il mondo che ci viene mostrato è in piena decadenza: morale, etica, politica e valoriale e ci viene descritto con un mimetismo che probabilmente sarebbe piaciuto a Pasolini, al Pasolini stigmatizzatore delle derive della borghesia italiana già in essere prima degli anni '70, intendo, quando quelle stesse derive stimolarono in Bianciardi le sue chimere anarchiche.
 
I personaggi descritti sono circondati da un alone di tanta vacuità che viene in mente quella battuta di Gassman in “La cena” (1998) di Ettore Scola: “Siete talmente vuoti che se mi affaccio su di voi mi vengono le vertigini”. Così come anche ad altri film di Scola viene da pensare, per esempio “La terrazza” (1980), a proposito degli intellettuali cinquantenni in crisi, anche se molti critici hanno visto dietro “Vanagloria” e la sua struttura -più che Scola- certa cinematografia di Altman (ma è un accostamento che non mi sentirei di condividere in pieno).
 
Quanto al linguaggio, collocare il Tuzzi di “Vanagloria” -come qualcuno ha fatto- tra i post-gaddiani (e peraltro il Gadda di “Eros e Priapo” è citato dall'autore, come anche Pizzuto) è forse eccessivo e non rende al nostro un buon servizio. Tuzzi giustamente si impegna in una presa diretta di una koiné meneghina, differenziata tra i contenuti colti e i toni snob di ambienti accademici e di professionisti della finanza e dell'editoria e lo slang basico delle mille parole (un “neo-baluba”, senza offesa per i dignitosi idiomi sub-sahariani) dei giovani e dei subalterni. Nell'ambito delle sue riflessioni usa poi un linguaggio espressivo, fortemente ancorato alla cultura classica e ricco di citazioni (forse eccede un po' troppo in esibizionismo culturale) però aperto anche a invenzioni linguistiche e giocando spesso col calambour e con la polisemia. Ma gli impasti linguistici dell'ingegner Gadda erano altro, differenziati con cura per geografie e per ceto, e credo che qui non sia il caso di scomodarlo con paragoni di azzardata sostenibilità.
 
Tuzzi vuole trasmetterci tutta la sua indignazione verso il meschino piccolo mondo post-moderno che ritrae, tutta l'ottusità e lo squallore morale dei suoi personaggi, e non si perita (giustamente credo, perché funzionale alla caratterizzazione di quel mondo) di riportarne battute e doppi sensi, avvilenti barzellette, semplificazioni e luoghi comuni. (“Tutti gli scrittori ebrei americani sono scrittori del cacchio. Come Moravia del resto. Roth non è, in questo senso, che la più dichiarata delle loro derive.”
 
“Nella stagione degli amori, mentre i maschi combattono fra loro facendo rimbombare tutto il Gran Paradiso dell'urto delle lunate corna, cosa gridano le femmine degli stambecchi? (…) Viva il cozzo!”)
Riporto queste due gemme, estrapolate da un florilegio pressoché sterminato di siffatte amenità, per far capire il registro della comunicazione volutamente becera che caratterizza i personaggi altolocati di Tuzzi, e tra coloro che se la ridono ammiccando c'è anche un emerito preside di Facoltà. Eppure, vuole farci pensare l'autore, non è così che ormai si parla (fuori onda e non solo) nel mondo della politica, del giornalismo, della comunicazione, della cultura? Non è questo l'encefalogramma piatto della nostra società, “ingaglioffita” e omologata al basso? E ancora, a proposito dei linguaggi, mi viene da citare il passo dei due giovani trentenni che aspettando dal barman i loro “Manhattan” (non si è “nerd” a caso) si scambiano battute del tipo: “Dammi la tua view su questa faccenda di Israele e Gaza”; non viene in mente Nanni Moretti in “Palombella rossa” (1989) quando prende a schiaffi la povera giornalista che usava termini come “Kitsch”, “cheap” e “fuori di testa”, urlandole in piena isteria “Ma come parla? Le parole sono importanti! Come parla?”?
 
La corruzione del linguaggio interessa Tuzzi perché la identifica come segnale di una ben più articolata corruzione, e non manca di sottolinearla a più riprese. Nel bailamme di chiacchiericcio, pettegolezzi, intrighi tra sesso e potere, agli occhi del moralista Tuzzi tutti i suoi personaggi perseguono desideri e illusioni senza onore né bellezza né futuro. Quasi tutti appartengono alle classi medio-borghesi della società, sono professionisti di prestigio, ma hanno perso quello che un tempo si intendeva per “classe”, imbarbariti nel linguaggio, nei comportamenti, nelle aspirazioni. Il vortice che finirà per inghiottirli è inesorabile: come detto, solo la morte regala a qualcuno di loro una certa dignità. E l'autore, con l'ultimo personaggio che muore in solitudine, ci regala pagine di alta poesia, inducendoci umana pietas dopo tanta rabbia e indignazione. Toccanti, molto ben descritti e di grande forza allegorica sono i suoi ultimi momenti, quando nello stupore che precede quella inaspettata morte, Massimo Rost-il poeta- ripesca da qualche meandro della memoria i versi e le note pateticamente melò di “Granada” cantata da Claudio Villa. E con quei versi che echeggiano nella sua mente l'autore lo fa morire. Non si uccidono così anche i cavalli?

Hans Tuzzi, “Vanagloria”, Bollati Boringhieri 2012.

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