02 ottobre 2012

"Sei tamburo che rulla" di Letizia Pantani



di Davide Pugnana

Di Letizia Pantani, del suo canzoniere che il destino di una serata lucchese mi ha messo tra le mani, ho ammirato subito quei testi che la poetessa era stata capace di sigillare in un verso-grimaldello, per me memorabile: "poesie del buco o della nebbia" (v.9 di"chissà se hai letto le poesie"). 

So bene che non è mai facile isolare un'insegna luminosa dentro l'edificio di un canzoniere: ce ne sono talmente tante a punteggiare le direzioni di marcia, che lasciare un sentiero equivale ad impoverirne la portata; a smarrire il meraviglioso policentrismo di una vita ri-creata in versi. Ma a volte accade che un verso cada dalla pagina con il peso specifico del mercurio. Difficile rimanere inerti. Se volessimo cercare un indizio di questa natura nell'attraversamento di Sei tamburo che rulla dovremo partire da questa lucida dichiarazione di poetica: la vita si ricompone in poesia, si consegna alle maglie dei versi secondo una parola poetica che si muove su una doppia polarità: si cerca nel buio dell'interiorità e nelle strozzature dell'esistenza. Il buco e la nebbia. Due condizioni conoscitive dove il senso dell'estremo, la vertigine del vuoto, la perdita e l'angoscia, la ricerca di un baricentro stabilizzante e la fecondità malinconica prima che essere 'temi' sono cifre di uno stile mai disancorato dalla visione interna che lo muove. 

Come me, molti non hanno conosciuto Letizia Pantani, non ne sanno la voce, le movenze, non possono sapere la sua quotidianità. Ma molti possono ripercorrerne le vie segrete: non la vita, l'aneddotica, i giorni e le ore che la ispessiscono; ma, per usare le parole di Nabokov, la "biografia dello stile".

 Vissuto su questo livello l'incontro è, se lo accettiamo, ancora più profondo e radicale, perché imbastito su di un linguaggio che si costruisce per durare oltre il tempo: è conoscenza e forma di un io profondo, che emerge avvitandosi su catene di parole. Che cosa importa se in un pomeriggio del 1890 i corvi volarono davvero sopra uno dei tanti campi di grano della Provenza, mentre Van Gogh spremeva il giallo con quel poco di denti e di fiato rimasti buoni per finire il suo ultimo paesaggio; oggi noi riceviamo quell'infittirsi di linguette nere contro il blu cobalto e le striature viola come emblema di potenza simbolica; lama capace di andare oltre ciò che non si vede, verso la soglia della morte. Nemmeno la delicatezza estenuata delle lettere vangoghiane restituisce questa bucatura nella nebbia, come quei torvi tocchi sbreganti che stuprano il silenzio del cielo. 

So che molti non saranno d'accordo. Eppure, nell'espressione "poesie del buco o della nebbia" qualcosa di estremo, di tenace, di morboso, di inquieto cucito addosso, ci investe. Questa radicalità dei versi di Letizia è propria di un Dna tutto inscritto nella ricerca lirica delle poetesse del Novecento. Insisto tanto sul sintagma "poesie del buco o della nebbia" perché è un'immagine-metafora atroce e bellissima; ma non per questo isolata: non brilla di una compiaciuta luce estetica decadente né è facile retorica esistenzialista. E perché il suo tenore va molto più a fondo. E' un verso che, seppur estrapolato e brutalmente citato, non perde vigore visionario e scorza lirica. E perché è un verso "storicizzabile", ossia esportabile nello scenario più vasto della poesia femminile del Novecento.

 Mettiamolo accanto, per fare i primi due nomi che vengono alla mente, a un verso della "Terra Santa" di Alda Merini o a quelli di Antonia Pozzi, un'altra poetessa che osservava le cose nelle crepe irregolari dell'esistenza, per spiarne i "cenni arcani di partenza" e fissarli, incandescenti ogni volta e ogni volta facendoli ripartire, moltiplicati di sensi nella mente dei lettori. Lo statuto espressivo, il timbro della voce poetica di Letizia Pantani è pienamente assestato nella lunga linea poetica della creatività lirica femminile. Ma per sentirne la consanguineità occorre sempre comparare i canzonieri. Come per altre poetesse (non tutte certo), anche per Letizia la visceralità, l'impulso allo scavo, la creatività alimentata dalla malinconia, diveniva talmente pervasivo e necessario da farsi principio costruttivo e nucleo portante di una raccolta. 

Ma tuttavia con una marcata differenza di stile che la allontana dalla parola verticale e straziante di una Merini o da quella mobile e sfrangiata di una Pozzi e ne fa emergere l'autonomia di scavo. La poesia di Letizia sposa appieno una cifra del Novecento poetico: la prosa. L'unione di poesia e prosa. Il suo dettato prosodico ha l'accento liquido dei semitoni, con effetti di pedale; talvolta si accorda su incipit piani, scorre in pacati anelli narrativi, senza increspature. 

Ne sortiscono testi dove l'io lirico è reso per sottrazione fonica e assimilato ad un mormorio colloquiale che annulla qualsiasi tentazione aulica, e non sai mai se è flatus vocis che emerge dal buco o dalla nebbia, o vi guarda dentro. Sotto questa veste stilistica dimessa - che, di acchito, potrebbe essere imputata ad imperizia tecnica, a strumenti espressivi mal collaudati o naif - si nasconde un incessante lavorio di riflessione sulla funzione e la natura del fare poetico; sul sottile confine che separa l'incantesimo musicale della bravura versificatrice dalla verità che si cerca come scheggia nella carne; sull'unione mistica di parole e cose. 

Molti testi di Letizia sono concepiti come piccoli trattati di estetica poetica: "penso alle mie poesie/ come a esercizi di stile/ come modalità espressiva contingente/ certe volte non amo la filastrocca che viene/ ma vada come vada/ quest è/ ora/ la mia palestra/ il ginnasio alla greca // la poesia è adesso un modo di vedere/ qualche mese fa era un modo per essere/ in futuro non so/ baci let."

 I poeti onesti, i poeti coscienti della difficoltà di mettere la vita in versi, sanno che "l'esercizio di stile" è tentazione pericolosa; esso non restituisce il canto dell'io profondo; ma tradisce l'esperienza del contingente ( che è fatta di sensi, di memoria, di tempo, di luoghi, di speculazione, di introspezione). L'esercizio di stile spinge la parola lontana dalla cosa, verso "un modo per essere", svuotato di visione; a meno che esso non sia educato al duro tirocinio del "ginnasio alla greca": la palestra di una civiltà letteraria nella quale la parola poetica era fabbricata per essere 'messa in scena'. Anche quella del ginnasio greco era parola che parlava "del buco o della nebbia" connaturati alla natura umana, dei suoi complessi drammi psichici; ma il suo orfismo d'origine era ripulito e reso accessibili a tutti. Era parola maieutica aperta alla condivisione collettiva. Anzi parola del dialogo, come scrive Letizia: "forse 'preghiere' / o magari 'danze'/ c'è dialogo in quello che scrivo/ e c'è anche se manca l'interlocutore". 

Sì, paradossalmente è proprio la siderale assenza di interlocutore a generare l'impulso della ricerca dell'altro fuori di noi. Lui raccoglierà la "biografia dello stile" e ci sarà nostro simile, fratello senza ipocrisia. Una voce in versi, dunque: che renda sopportabile l'orfanità che ci abita e si sollevi da un buco indistinto, come volo di corvi.

Letizia Pantani. Sei tamburo che rulla. EDL. Euro 10,00 

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