27 settembre 2012

"Una casa alla fine del mondo" di Michael Cunningham




di Mirta Vignatti

Ho letto “Una casa alla fine del mondo” di Michael Cunningham, autore del capolavoro “Le ore”, che rimane uno dei 10 libri più importanti che mi siano passati tra le mani quest'anno.

Una casa alla fine del mondo è un'opera prima e risale al 1990, ma più che romanzo di formazione si pone già come lavoro maturo e ambizioso: l'autore, nonostante sia agli esordi, sa dimostrare una grande perizia nel tratteggiare personaggi e situazioni e, soprattutto, padronanza nell'organizzare la struttura narrativa divisa in punti di vista dei diversi personaggi (prevalentemente 5) che diventano altrettanti io-narranti, alla stessa maniera che nel capolavoro Le ore.

Anche se a quello la materia narrativa avrebbe portato, Michael Cunningham non si limita ad un romanzo di sentimenti, di analisi intimistica dell'evoluzione di pre-adolescenti che diventano uomini. L'autore ambisce a riportarci il disagio e gli effetti di una discutibile educazione familiare su un'intera generazione cresciuta in una emblematica città statunitense del Middle West, nel periodo del post-Woodstock, e ci riesce appieno.

Personalmente non sono propensa ad incasellare certi autori nel novero della cosiddetta “letteratura gay”, ma certo -tra tutti gli scrittori che hanno scelto a livello personale di vivere una diversa affettività e di rispecchiarla nelle proprie opere- (e penso a David Leavitt e al nostro Pier Vittorio Tondelli, se proprio un paragone bisogna fare) Cunningham giganteggia e si fa il vuoto intorno in quanto a eleganza di stile, capacità introspettiva, talento narrativo e sincerità nel descrivere i rapporti personali senza mai speculare con facili morbosità.

Il titolo del romanzo ha a che fare con l'idea di casa come isola, come spazio eletto dove approdare insieme a compagni e compagne affini, dove vivere, maturare e realizzarsi insieme, puntellandosi l'un l'altro perché da soli si andrebbe alla sbando. Due sono le case-approdo in questo romanzo: un appartamento a New York e, alla fine, una casa colonica nei pressi di Woodstock. Ma in entrambi i casi una fuga vanifica l'ideale della famiglia allargata, a significare i profondi disagi nelle capacità interpersonali dei personaggi.

Questo concetto di spazio dove “ritrovarsi” e “ritrovare” anime affini, lo troveremo in seguito anche in “Dove la terra finisce”, libro del 2002 dove Cunningham descrive Provincetown e Cap Code, una sorta di Finis Terrae scelta da artisti, scrittori e comunità gay più che per viverci, per condividere con persone “scelte” i frammenti della propria esistenza. Una sorta di fuga dal mondo omologato del benessere e dello stress, dal mondo dei rapporti freddi e superficiali verso un'idea di nostalgica utopia.

Michael Cunningham. Una casa alla fine del mondo. Bompiani

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