22 dicembre 2011

"Alle origini del social work in Italia" di Luciano Lucian

Quasi una damnatio memoriae. Su di essa hanno agito elementi diversi, tutti orientati, però, a ridimensionare la portata delle originali pratiche e la memoria degli straordinari protagonisti che hanno segnato la storia del lavoro sociale in Italia tra Ottocento e Novecento sino alla Grande Guerra quando si impose in tutta l’ Europa un’agenda accelerata e drammatizzata sia dei conflitti tra i popoli europei, sia del conflitto tra le classi.

Oggi pochi, pochissimi conoscono ancora i nomi di Laura Solera Mantegazza, figura eminente della filantropia milanese, “garibaldina senza fucile”, “vera amica del povero”; della “santa laica” milanese, Alessandrina Ravizza, che “visse ossessionata dal dolore degli altri”; di Stèphanie Etzerodt Omboni, che operò a favore dell’infanzia abbandonata nel Veneto di fine Ottocento, di Ersilia Bronzini Majno, fondatrice dell’Unione Femminile impegnata su un vastissimo fronte di problemi dalla lotta alla prostituzione alla medicina del lavoro. E sono solo ombre sbiadite le esperienze e i nomi di Luigi Majno, avvocato socialista; del sindacalista Osvaldo Gnocchi-Viani; di Prospero Moisè Loria, ricco commerciante israelita che quando muore lascia tutti i suoi beni al Comune di Milano perché provveda a costituire una ‘Società Umanitaria’ per ‘mettere i diseredati d’ambo i sessi e senza distinzione in condizione di rilevarsi da se medesimi, procurando loro appoggio lavoro istruzione’

Certo è che la loro coerente, testarda sollecitudine per il miglioramento delle condizioni di vita dei poveri, dei senza lavoro, degli emarginati, con una particolare, amorevole attenzione per le donne e i bambini, non può essere comprese sino in fondo se non ricondotte all’interno di un più largo e diffuso sentimento di preoccupazione per l’umanità offesa che scandalizzava e muoveva il sentimento degli spiriti più aperti e sensibili della borghesia europea: in tutto il vecchio continente, i suoi esponenti migliori seppero, infatti, realizzare significative esperienze di solidarietà tra le masse proletarie che affollavano le miserabili periferie delle metropoli e iniziavano a presentarsi via via con sempre maggiore convinzione sulla scena della storia ansiose di diritti mai goduti prima; tra le plebi rurali abbrutite da rapporti di potere derivanti più dal medioevo che dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino; tra i feriti e i mutilati dal ferro e dal fuoco dei campi di battaglia in cui si andavano sanguinosamente definendo gli assetti politico – territoriali dell’Europa del XIX secolo percorsa da continui conflitti locali e devastanti crisi internazionali.


Un’internazionale borghese e solidale

Obiettori di coscienza, organizzatori di leghe operaie, missionari tra gli affamati, i detenuti, le prostitute, alfabetizzatori di plebi rese opache da un’ignoranza secolare, soccorritori di vittime delle calamità naturali o dei corpi in uniforme stroncati dalle armi bianche o da fuoco costituiscono, nel corso del secolo delle rivoluzioni nazionali e liberali e dell’acuirsi della questione sociale, un’internazionale solidale e, per tanti versi, provvidenziale: magari confusi i loro programmi, oscillanti tra slancio idealistico ottocentesco, sincera pietà per condizioni di vita indegne di popoli civili e genuina adesione alle lotte per i diritti, spesso però efficaci le loro pratiche sociali e capaci di dare risposte concrete a bisogni diffusi e a urgenze improcrastinabili. Alcuni nomi tra i molti che, agendo più o meno consapevolmente nel solco della “religione positiva” di Auguste Comte (1798 – 1857), operarono nei fatti per sostituire l’umanità a Dio: l’inglese Florence Nightingale, “la fanciulla con la lampada”, che riorganizzò i servizi infermieristici dell’esercito inglese impegnato nella guerra di Crimea (1854 – 1856) e che, sulla base di quella esperienza rimasta memorabile presso l’opinione pubblica europea, modernizzò in seguito anche gli ospedali civili della Gran Bretagna; lo svizzero ginevrino Henry Dunant, (1828 – 1910) “l’avventuriero della carità”, che, dopo aver conosciuto de visu l’alba di orrore successiva alla battaglia di Solferino, (1859) impegnò il resto della propria tormentata esistenza per la costituzione di una Società internazionale di soccorso tra i combattenti di ogni esercito, la Croce Rossa, (1864); il russo Nicolaj Ivanovic Pirogov (1810 –1881), illustre figura di scienziato, chirurgo, educatore e uomo pubblico; l’italiano Ernesto Teodoro Moneta (1838 – 1918), prima garibaldino, poi direttore del quotidiano radicale e progressista milanese “Il secolo” e quindi premio Nobel per la pace nel 1907; la praghese, di origine aristocratica, Bertha von Suttner (1843 – 1914), la “strega della pace” come era sprezzantemente definita dagli ambienti nazionalisti e sciovinisti di tutta Europa, scrittrice, giornalista, segretaria di Alfred Nobel ed ella stessa premio Nobel per la pace nel 1905. Senza dimenticare il quotidiano, silenzioso impegno della Società degli Amici, i Quaccheri che per primi in Europa presero coscienza delle tragiche condizioni di vita dei poveri, vero e proprio “popolo dell’abisso” ridotto quasi a una razza a sé: cacciati dalla terra, obbligata al lavoro nelle manifatture, abbrutiti dalla fame e da ogni altra miseria materiale e morale.


Il gregge proletario: la pena e la paura

Da Londra a Parigi, da Berlino a Milano per tutta la seconda metà dell’Ottocento la letteratura e le arti figurative raccontano questo mondo degradato e subalterno popolato di affamati e pellagrosi, malarici e sifilitici, tisici e alcolizzati, e gli ambienti che li raccolgono: carceri, ospizi, ospedali, manicomi, lupanari… Gli umili manzoniani, tutti caratterizzati da una loro specifica dignitosa individualità, in pochi decenni si sono trasformati in moltitudine, indifferenziata, minacciosa, ingovernabile: i sentimenti di pena e comprensione per le sofferenze del gregge proletario si mescolano con uno stato d’animo di timore per l’irriducibile contraddizione sociale di cui esso è portatore. Negli ambienti più retrivi del conservatorismo italiano tornerà spesso a farsi strada l’idea della repressione e della stretta autoritaria come il modus operandi più adeguato per contenere la pressione della questione sociale; i settori liberali della borghesia del nostro Paese appena riunificato, però, quelli culturalmente e politicamente più impegnati nella costruzione di forme di direzione egemonica della società (la scuola, innanzitutto, ma anche un moderno sistema di assistenza) si indirizzeranno in maniera diversa, cercando, con fatica e contraddizioni, di intraprendere la “via che ha già cominciato a percorrere l’Inghilterra, quella cioè delle grandi riforme sociali. E nel dir ciò, noi ripetiamo un giudizio, che è stato espresso dallo stesso Carlo Marx, uno dei fondatori dell’internazionale quando disse che solo l’Inghilterra aveva trovato la strada per salvarsi dal pericolo che minaccia tutta l’Europa” (P. Villari).

Così, all’indomani dell’unità territoriale raggiunta nel 1861 e completata con la proclamazione di Roma capitale nel 1870, nel favorevole clima culturale sollecitato dal positivismo, numerose inchieste e indagini promosse da enti e istituzioni pubbliche rivelarono all’opinione pubblica come i problemi elementari dell’esistenza di larghe masse del Paese fossero ben lontani dall’essere risolti e le condizioni subumane in cui vivevano ancora tante aree del nostro Paese: si moltiplicarono allora, , le associazioni di beneficienza, laiche o cattoliche, che, ex novo o potenziando strutture già esistenti, promossero orfanotrofi, asili notturni per i senzatetto, ospizi per vecchi, ricoveri per ragazze madri o per l’infanzia sofferente, cucine economiche… Il modello più seguito era quello che proveniva dall’Inghilterra dove, per porre termine al caos determinato dall’azione non coordinata delle numerose associazioni caritative, si era costituita nel 1869 la Society of Organising Charitable relef and Repressing, più tardi trasformata in Charity Organisation Society, ma sul movimento filantropico italiano ai suoi esordi non mancava di esercitare un certo fascino anche l’esperienza tedesca che, negli anni del cancellierato di Ottone di Bismarck, aveva introdotto un sistema di assicurazioni obbligatorie contro i maggiori rischi della povertà: le assicurazioni contro le malattie, 1883; gli infortuni sul lavoro, 1884; la vecchiaia, 1889: leggi precedute dalla premessa secondo la quale l’interesse dello Stato per i bisognosi “è un postulato necessario di politica conservatrice, allo scopo di far penetrare nelle classi senza fortuna, che sono le più numerose e le meno istruite, la convinzione che lo Stato è una istituzione benefica e indispensabile”. Tra le borghesia intellettuale tedesca, ma non solo in Germania, si diffonde l’idea di un socialismo paternalistico, calato dall’alto, non rivoluzionario, alieno dalla lotta di classe, pacifico e in grado di impedire l’affermazione del proletariato, prevenendo quelle che erano annunciate come le sue necessarie conquiste.

Nel nostro Paese, nella faticosa impresa di trasformare il nuovo organismo unitario nella casa comune di tutti gli italiani, considerata come le coerente continuazione delle battaglie per l’unità e l’indipendenza, ritroviamo non pochi uomini e donne soprattutto del Risorgimento: preoccupati alcuni che la guida e il governo della società rimangano saldamente nelle mani della borghesia moderata, altri, in genere con un passato mazziniano e di partecipazione al volontariato garibaldino, impegnati nella ricerca di forme più elevate di giustizia sociale e già disponibili alle suggestioni e ai programmi del proto socialismo.



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