05 settembre 2011

"La Garfagnana, l’Ariosto e don Chisciotte"

di Luciano Luciani

Raccontano che proprio sugli scenari di una Garfagnana verdissima e ancora selvaggia, tanto rigogliosa nei suoi scenari naturali quanto rude nelle relazioni civili, Ludovico Ariosto abbia riveduto, corretto, rielaborato definitivamente le ottave del suo Furioso, affinandole sino alla più assoluta perfezione stilistica.

In una parola, proprio nella Rocca di Castelnuovo, il poeta emiliano realizzò la decisiva, risolutiva fondazione di quel mondo epico – cavalleresco in cui, finalmente libero dagli impacci medioevali, il Rinascimento maturo ha riflettuto e sublimato i suoi spiriti e i suoi valori. L’umanissima cifra umana dell’esperienza e della vita che rappresentano il senso più intimo, più profondo del poema ariostesco si alimentano della libertà della fantasia e dell’armonia, si nutrono di uno straordinario mix tra realtà, finzione e sogno in un equilibrio formale che è soprattutto conquista e misura interiore.

E’ proprio partendo dal faticoso lavoro di revisione e correzione, compiuto nelle stanze della Rocca, tra le angustie proprie della politica e le quotidiane difficoltà di amministratore, che l’Ariosto trasferì ai letterati europei delle generazioni a venire un “immaginario” aperto all’avventura, sensibile al soprannaturale, pronto a cogliere le infinite suggestioni del fantastico. E’ con il poeta di Orlando e Sacripante, di Angelica e Medoro, di Ruggiero e Astolfo che si compie il passaggio dall’epos al romanzo, un lascito di cui tutta la letteratura europea gli deve essere grata: non ultimo lo stesso Cervantes, che raccoglie, aggiornandola alla sua epoca di crisi, un tempo di grandezze e miserie, el siglo de oro della letteratura spagnola, l’esigenza di valorizzare il sogno, la fantasia, l’ignoto, la follia, l’istinto, portando all’aperto le zone opache della coscienza umana.

Di ariostesco il Don Chisciotte mantiene il desiderio incontenibile di condizioni esistenziali in cui l’uomo non sia più irrigidito nel gioco prestabilito dei rapporti sociali, ma possa realizzare a pieno la propria individualità: il folle e idealista cavaliere della Mancia e Sancho, il suo scudiero dal tenace realistico buon senso, sono espressioni diverse di questa esigenza, il motivo centrale di quello che, a ragione, può essere definito il primo grande romanzo moderno.

Ma nel Don Chisciotte c’è, ovviamente, di più e altro

È, il Don Chisciotte, un romanzo prettamente moderno perché mette radicalmente in discussione le fondamentali acquisizioni rinascimentali: l’equilibrio del rapporto uomo/natura, la fiducia nella realizzabilità del progetto umano. Al loro posto subentrano lo scontro, la sconfitta, il senso dello scacco, l’acre sapore del disinganno, mentre la realtà s’è fatta sfuggente, contraddittoria, ambigua, governata da una perenne incertezza dei confini tra reale e irreale.

Nel Don Chisciotte s’è spezzato il rapporto tra la felicità dell’essere e l’angustia di esistere, tra la fantasia e la vita, si è determinata quella scissione irrimediabile tra coscienza ed esistenza che continua ancora oggi a dominare la nostra esperienza quotidiana di uomini affacciati sul precario balcone del terzo millennio: ora savi, ora folli, tragici e comici come l’immortale eroe/antieroe di Miguel de Cervantes.



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