06 febbraio 2011

"Ilaria Del Carretto" di Jacopo Della Quercia

di Luciano Luciani


La fanciulla di pietra

Addormentata in un riposo sereno la statua di Ilaria Del Carretto, moglie del signore di Lucca Paolo Guinigi, morta il 12 dicembre del 1402, si accende nel marmo bianco, terso delle luci dei ceri del duomo di Lucca. Le mani conserte sul petto; ai piedi un cagnolino, che fedele custode da quasi seicento anni sembra impegnato a proteggere il sonno della sua padroncina.

Nei dolci lineamenti del viso, nelle morbide pieghe della veste quattrocentesca che coprono un corpo rilassato e composto, Jacopo Della Quercia, scultore in fama di terribilità presso i contemporanei, ha voluto esprimere in maniera pacata, in forma sommessa, tutto il suo dissenso contro l’assurdità della morte, soprattutto quando arriva a colpire giovinezza e bellezza.

Non pochi i poeti che hanno saputo raccogliere la muta, discreta ma ferma protesta che promana da questo sepolcro. Tra questi Salvatore Quasimodo in Davanti al simulacro d’Ilaria Del Carretto, un testo del 1942:

Sotto tenera luna già i tuoi colli

lungo il Serchio fanciulle in vesti rosse

e turchine si muovono leggere.

Così al tuo dolce tempo, o cara, e Sirio

perde colore, e ogno ora s’allontana,

e il gabbiano s’infuria sulle spiagge

derelitte. Gli amanti vanno lieti

nell’aria di settembre, i loro gesti

accompagnano ombre di parole

che conosci. Non hanno pietà; e tu

tenuta dalla terra, che lamenti?

Sei qui rimasta sola. Il mio sussulto

forse è il tuo, uguale d’ira e di spavento.

Remoti i morti e più ancora i vivi,

i miei compagni vili e taciturni.


È straordinaria la consonanza che il poeta siciliano riesce a stabilire tra il sonno solitario della sposa bambina, passata come meteora luminosa e breve nell’autunno del medioevo lucchese, privata della vita e delle sue gioie e la propria condizione di uomo solo tra “compagni vili e taciturni”: vivi, ma più lontani, più remoti dei morti, chiusi nel loro egoismo, incapaci di aiuto, negati all’ascolto.

Alta, densa poesia cui non appaiono inferiori i versi che, quindici anni più tardi, Pier Paolo Pasolini, dedicherà alla Signora del Signore di Lucca:

“….., e Ilaria, solo Ilaria…


Dentro nel claustrale transetto

Come dentro un acquario, son di marmo

Rassegnato le palpebre, il petto

dove giunge le mani in una calma

lontananza. Lì c’è l’aurora

e la sera italiana, la sua grama


nascita, la sua morte incolore.

Sonno, i secoli vuoti: nessuno

Scalpello potrà scalzare la mole


tenue di queste palpebre.


Jacopo con Ilaria scolpì l’Italia

perduta nella morte, quando

la sua età fu più pura e necessaria”.


Nella coscienza del poeta friulano, sempre oscillante tra passione regressiva e ragione rivoluzionaria, il sonno secolare di Ilaria coincide con quello dell’umile Italia popolare cara a Pasolini e da oltre mezzo millennio trascurata, abbandonata a se stessa. Sola, come Ilaria ormai impietrata nel suo sepolcro.

Ancora la voce di un poeta per Ilaria. Quella di Marco Lucchesi, fervido poeta brasiliano, nato una quarantina d’anni fa a Rio de Janeiro da genitori toscani, professore universitario di letteratura italiana e traduttore in lingua portoghese di Foscolo ed Eco, Primo Levi e Dino Campana, Pasolini e Roberto Cotroneo. Così, attraverso la figura della sposa del Guinigi, questo raffinato letterato d’oltreoceano nostro contemporaneo rielabora nella lingua degli avi il tema caro ai letterati d’ogni tempo, quello del contrasto tra la bellezza e la morte:

Nudità


Così ti svesto

prima che il tempo

ingordo

di tua beltà ti svesta


bacio

le tue soavi gote


i seni

ascosi

come

augelli

al nido


la fronte

soave

d’imenei


il madido

fior di tuo

segreto


sublime

gioia

e rio dolore


così ti svesto

prima che il tempo

ingordo

di tua beltà ti svesta

(da Lucca dentro, 2002)

E le suggestioni esercitate da questa perticolarissima tomba continuano ad agire sull’ispirazione degli scrittori di ogni tempo: sono arrivate anche a toccare gli anni recentissimi del millennio appena fuggito, riuscendo a oltrepassare i confini della letteratura “alta” per alimentare il vischioso melting pot della letteratura di “genere”.

Giorgio Celli, oggi etologo di fama televisiva e polemico letterato d’avanguardia nei suoi anni giovanili, individua proprio nella piazza del duomo di Lucca lo scenario privilegiato per concludere al meglio la vicenda horror – noir di un allucinato ritual killer, che, proprio nella tomba di Ilaria e nel suo autore, trova il motivo ispiratore delle proprie macabre ossessioni:

“… e lui se ne andò come un fantasma dal cappotto ormai candido, per i vicoli silenziosi, lungo i viali di lecci e di platani verso il Duomo. Un orologio, nel buio, al di là di molte case cantò; era l’una e mezza. Pensò di aver dato troppo credito alla precisione dell’ora in cui sarebbe stato compiuto il sacrificio. E se l’avesse già sgozzata? Se, davanti al Duomo che ospitava il sarcofago di Ilaria del Carretto, la bella statua con il cagnolino ai piedi, avesse trovato solo un cadavere ancora caldo? Fu sicuro di no. I riti hanno le loro regole, che non possono essere per nessuna ragione trasgredite… La statua di Ilaria doveva essere, per forza, il feticcio per quel nuovo rito di sangue…”

Naturalmente non faremo torto al lettore svelando la fine di Sotto la quercia e lo lasceremo con la voglia e la curiosità di saperne di più. Ci limiteremo ad annotare che il gustoso pastiche tra storia, arte e “giallo” elaborato con intelligenza da Giorgio Celli non sarebbe stato così intrigante senza la sfuggente magia di questa Città e della sua più famosa abitatrice.