02 settembre 2010

L’altro sguardo": per una riabilitazione del Novecento poetico femminile" di Davide Pugnana

“Le grandi voci della nostra vita attraversano spesso una zona di silenzio prima di raggiungerci.” (Marguerite Yourcenar)


I

La frase messa in epigrafe è tratta da un saggio di breve respiro - tra i più illuminati del Novecento - che Marguerite Yourcenar ha dedicato alla figura e all’opera del romanziere giapponese Mishima ("Mishima, o La visione del Vuoto"), l’ultima, grande presenza maschile ad essere (ri)visitata dalla mente coltissima e sovranamente intuitiva della scrittrice francese.

Ho scelto di estrapolare questo passaggio perché tra tutte le immagini possibili, questa figurazione spaziale della “zona di silenzio”, raggiunta a getti caldi e intermittenti da alcune “grandi voci” - voci giunte quasi fatalmente e per volontà di un destino oscuro - traduce alla perfezione la complessità e la fecondità creativa della ricerca poetica femminile dentro il Novecento. Non solo: la “zona di silenzio” permette di trovare, al contempo, l’equivalente allegorico della condizione di esclusione e di marginalità della scrittura femminile sul terreno delle selezioni, dei ’cànoni’ e delle logiche che regolano la compilazione dei manuali e delle antologie.

Focalizzandoci sul Novecento italiano (e tralasciando quel netto florilegio maschile che è la ‘Storia della letteratura’ del De Sanctis), possiamo seguire questa esclusione comparando due famose antologie di poesia del Novecento: la prima è quella di Pier Vincenzo Mengaldo (“Poeti italiani del Novecento”), la seconda è quella compilata da Edoardo Sanguineti (“Poesia italiana del Novecento”).

Entrambe coprono quasi l’intero secolo; ed entrambe svolgono due livelli di analisi affini: negli ampi saggi introduttivi, i due autori delineano la loro storia e la loro periodizzazione, alla ricerca delle origini della modernità lirica in Italia; mentre ai singoli poeti dedicano un medaglione, nel quale vengono fissate vita e poetica. Si spinge l’asse cronologico fino ad includere Pascoli e D’Annunzio, quali termini di inizio; seguono crepuscolarismo (Gozzano e Corazzini); Govoni e Palazzeschi, passando per i vociani (Sbarbaro e Rebora, soprattutto); una sosta intensa nel paesaggio orfico di Campana e in quello interiorizzato della Trieste di Saba; poi si accede alla camera oscura dell’ermetismo (Luzi, Quasimodo, Gatto, Penna), e si tocca il baricentro del secolo con le due “funzioni” maggiori: Ungaretti e Montale. Dopo una lunga sosta tra nudi versi carsici e viaggiatrici alate prese tra bufere metafisiche, si prosegue nella generazione successiva con Bertolucci, Caproni, Zanzotto, Sereni, per giungere a sfiorare i bordi della poesia dialettale (Giacomo Noventa, Biagio Marin e Delio Tessa; Virgilio Giotti, Albino Pierro e Franco Loi). Chiudono le due antologie gli outsider Pavese e Pasolini; Sanguineti e Raboni (in Mengaldo) e i rappresentanti del gruppo ‘63 (in Sanguineti). Tra le due antologie passa una leggera variazione: Mengaldo si permette di includere dieci liriche di Amelia Rosselli.

Questo rapido attraversamento delle due antologie poetiche più famose, dà un’idea, contingente e tangibile, della “zona di silenzio”, ossia dell’assenza delle poetesse italiane del Novecento durante la formazione del cànone poetico novecentesco. Questo modello (e questa impostazione storico-metodologica) è venuta poi rispecchiandosi nelle antologie per il liceo, tutte improntate a consegnare una storia letteraria declinata al maschile (salvo la narrativa morantiana e le recenti, ma ancora rare, ’sezioni’ tematiche dedicate al nodo femminismo-letteratura).

La sola eccezione risale al lontano 1951, allorquando Giacinto Spagnoletti pubblicò l’antologia “Poetesse del Novecento”, includendo le liriche di una giovane sconosciuta di nome Alda Merini. Così dovremo attendere il 1996 per avere finalmente tra le mani un’opera organica, capace di raccogliere la lezione censurata e la parola sommersa delle poetesse del Novecento.


II

“L’altro sguardo. Antologia delle poetesse del Novecento” (1996) è stata da poco ripubblicata, in versione aggiornata, nella collana mondadoriana dedicata alla Poesia del ’900. Dopo esattamente quattordici anni torna al pubblico ripulita, arricchita di altre sei voci poetiche femminili - tra le quali la stessa Alda Merini - e con la curatela filologico-critica di Guido Davico Bonino e di Paola Mastrocola, alla quale si deve il pregio di un’introduzione articolata intorno a nodi interrogativi sulla natura e sulla specificità della lirica femminile. Lungo quattrocento pagine, vengono raccolti testi che coprono più di un secolo di storia letteraria mondiale; si attraversano i principali movimenti artistici e gli snodi di poetica individuale. Come grani di rosario ordinati in successione lineare, vediamo snodarsi e moltiplicarsi le 'voci' di poetesse appartenenti a luoghi geografici e ad anni differenti (si va da poetesse nate negli ultimi decenni dell’Ottocento a figure recentemente scomparse).

Il titolo dell’antologia è il segno più evidente della volontà di mostrare la presenza di questo continente sepolto, di questo Novecento ‘non ufficiale‘ che lavora, trasversalmente, sotto quello dorato e rotondo dei grandi maestri canonizzati. L’espressione “altro sguardo” è figlia di un desiderio che da lungo tempo chiedeva di essere esaudito: il desiderio di far conoscere al lettore italiano l’altro versante del XX secolo, quello della ricerca poetica femminile, tutta votata allo scavo del dolore, alla testimonianza della durassiana “malattia della morte”: quella cifra segreta della vita individuale e collettiva del secolo scorso.

Ma l'espressione "altro sguardo" fissa anche l'alterità del punto di vista femminile, una lente conoscitiva obliqua, rispetto alla quale il gusto e l'orizzonte d'attesa del lettore italiano rimane spiazzato. Che cosa agisce di nuovo e di perturbante in questo contatto? Nel panorama che schiude l'antologia, dov'è il 'punctum' rispetto allo 'studium', per usare il felice binomio barthesiano? Porsi di fronte e interrogare la ricerca poetica femminile - tutta votata allo scavo del dolore e alla formazione di una parola assunta su di sé, sul proprio corpo, come scheggia nella carne - apre alla scena di un Novecento punteggiato di "agnelli sacrificali". Dietro questa omissione della presenza muliebre, non pesa solo un pregiudizio di ordine ’maschilista’, già smantellato, a più riprese, dagli storici movimenti femministi e dalla teorizzazione stratificata (biologica; storica; psicoanalitica; letteraria; antropologica ecc.) di Simone de Beauvoir ne “Il secondo sesso”.

E' pur vero che nei confini di senso di questa recensione, il versante storico non ci interessa; ci interessa, invece, capire l’origine dell’oscuramento dei percorsi creativi femminili e, in ultimo, ci preme trovare la possibilità di isolare dal coro una “definizione di poesia” che si intrecci ad un modo dell'essere-nel mondo, ossia giungere all'anello più profondo dell'interpretazione, laddove i testi si congiungono alla vita e la vita all'elaborazione creativa. Qui sta un possibile 'punctum' latente dell'antologia: la conoscenza progressiva dell'"altro sguardo" può innescare un'accelerazione innovativa capace di investire e apportare linfe nuove all'immaginario del lettore italiano.

Il campionario rubricato dai curatori ha l'ampiezza di una galleria: ci vengono incontro poetesse diverse, per formazione e direzione di scavo e di ricerca; ogni io lirico ci spinge ad interrogare una parola che si rivela e si con-fonde con un sottosuolo oscuro e doloroso, appassionante. Sono testi che spaventano per la loro radicalità; che portano davanti a scenari ’notturni’ e 'censurati'; sono testi che (ri-)producono i woolfiani 'tagli' di gioia e dolori; che utilizzano - per dirla con il francesista Carlo Pasi - una "comunicazione crudele' : quella che fugge il consenso e l'integrazione, e preferisce "la creazione silenziosa nelle zone d'ombra", impastate di conflitti e di malinconie; o ancora: quel viaggio che sceglie una verticalità rovesciata in basso, verso "realizzazioni più affilate, coinvolgenti, (che) irrompano da vortici di opacità, dai bordi dell'afasia, attraversando le lesioni del linguaggio.".

Per questo, è stato detto che le scritture femminili - in poesia come in prosa (e basti, sopra tutte, l'incidenza della produzione durassiana, la sua influenza di stile su scrittrici come Agota Kristov o Herta Muller) - rappresentano una delle espressioni più radicali, più estreme, della crisi prodotta nella coscienza moderna dalla violenza delle forze distruttrici che hanno sconvolto la civiltà novecentesca: questo secolo abrasivo, percorso da polarità e contraddizioni memorabili, diviso tra impulsi necrofili e impossibilità di generare bellezza (pensiamo al monito di Adorno e della morte della poesia dopo Auschwitz, e al controcanto di Paul Celan con la sua Muttersplache, la 'lingua della madre').

Nel mezzo di questa crisi dei fondamenti, che ha investito il pensiero, la parola, i sistemi di percezione e di rappresentazione, ogni scrittrice si è spinta fino a mettere a nudo la dimora che le è propria: il linguaggio bucato, scarnificato e sradicato da se stesso; la 'parola' lavorata e raffinata a partire dalla lotta con un grumo profondo, intricato di silenzi e di feritoie, ma accolto e capito. Un linguaggio che, prima di tutto, diventa il luogo di un’interrogazione implacabile e senza fine. Si attraversa così, via via, la "zona di silenzio", divisi tra senso della perdita ed esclusione, tra esilio e orfanità; ma nella quale ci è dato trovare il nome della propria disperazione vitale.

Questo spazio di precarietà, soggetto a visitazioni terribili e a svuotamenti improvvisi, penetra all’interno della scrittura femminile; ne diventa il “corpo” testuale, che spesso si affida a frammenti, o a metafore affilate come rasoi. Scrivere è dunque per queste poetesse un cammino verso l’ignoto; un viaggio dentro il nostro “interno paese straniero” (Freud), paese plurale, luogo familiare e straniero a un tempo. Scriverà Marianne Moore: “Neanche a me piace: vi son cose più importanti di tutte queste inezie./ A leggerla, però, con tale disprezzo, vi si scopre,/ dopo tutto, uno spazio per l’autentico.” (La poesia).

A questa affermazione risponderà Paola Mastrocola nel cuore della sua Introduzione: “Se dovessimo indicare una marca specifica della poesia femminile, vorremmo suggerire proprio questa, sulle orme della Moore: scrivere poesia è per le donne trovare un luogo depositario dell’autentico. Vogliamo dire che la scritture femminile in versi è particolarmente, forse più di quella maschile - dovendo qui per necessità generalizzare -, costruita sulla ricerca della verità: innanzi tutto della propria verità, di ciò che nella propria vita è ‘vero’; scrivere è riflettere su se stesse, riflettersi, piegarsi dentro e lì dentro guardare, a costo di trovare il buio e l’orrore. È questo estremo ’coraggio dello sguardo’ che rileviamo come peculiare; non è tanto una predilezione dei temi autobiografici, né tantomeno, un’idea di scrittura come sfogo, o luogo dell’analisi del sé; se l’io è a volte molto in primo piano, è per questo carattere autoriflessivo che naturalmente ha la scrittura poetica per la donna: potremmo dire che fatalmente la vita trova un suo luogo privilegiato nell’opera.” (pp. V-VI).

Da questo “coraggio della sguardo” e dalla varietà degli statuti che l’io lirico assume in questo viaggio dentro l’invenzione poetica femminile, l’espressione "altro sguardo” , dunque, si legittima definitivamente come la ricognizione necessaria della “zona di silenzio”: volontà di rapppresentare quel sentimento tragico dell’esistenza, quelle ferite e quelle mutilazioni, che la scrittura femminile ha imparato ad assumere su di sé, e, in alcuni casi, a trasformare nel destino tragico (suicida) che segna molte biografie.


III
La fitta presenza, nell’antologia, di testi che intendono rispondere alla domanda “che cos’è il poeta e la poesia?” ci invita a percorrere un terreno di grande fascino: quello di rintracciare (o, almeno, di avvicinarsi a capire) la presenza di un fondo comune, di una 'poetica', o di un registro della fantasia che marchi e stringa - sotto un comune denominatore - i modi di raffigurazione scelti dal genio femminile. E proprio sulla natura del talento femminile, mi è capitato di scoprire un pensiero di Baudelaire che, per la sua incisività, trascrivo: “L’uomo che, fin dall’inizio, è stato a lungo immerso nella molle atmosfera della donna, nell’odore delle sue mani e del suo seno, delle sue ginocchia, dei suoi capelli, dei suoi vestiti docili e fluttuanti, ha contratta una delicatezza d’epidermide e una distinzione d’accento, una sorta di androginia, senza le quali il genio più aspro e più virile resta un essere incompleto.”. Non ci sono distinzioni di “genere”; questo dualismo psichico è inteso da Baudelaire come fondo necessario alle nature poetiche; lo ritroviamo in un sonetto giovanile di Marguerite Yourcenar, nei termini di uno “sguardo” scisso sulle cose. Ne riporto i versi salienti:


“In questo frantumarsi che è la realtà,
gli esseri divisi in lui si ricompongono;
il dolce mostro perfetto s’è steso sulle rose;

(…)

E chiudendo i suoi occhi di penombra e di fiamma,
nel tenero abbandono di un dio che sarebbe donna,
propone al desiderio l’enigma del corpo” (Ermafrodito)


La ricerca del fondo e dell’essenza delle cose avviene, per molte poetesse, attraverso questo ‘sguardo bifronte’; un atto conoscitivo che nasconde la volontà di capire l’altro da sé, di riflettersi/sdoppiarsi per trovarsi, e marcare, non la differenza col mondo maschile, ma la complessità della natura umana. “Non è un caso - scrive la Mastrocola - che alcune poetesse si scelgano un nome maschile, o dicano di sé al maschile; è il desiderio di essere anche l’altro, nella nostalgia dell’eterno Ermafrodito”.



IV
“Ogni vero poeta ci dà l’emozione di renderci testimoni della nascita della poesia”, sostiene Nadia Fusini, e questa vertigine la percepiamo nell’istante in cui la parola poetica trova un corpo e una lingua in cui incarnarsi. È per questo motivo, forse, che nell’antologia ampio spazio è riservato a quei mèta-testi nei quali le poetesse fissano la loro idea di testo-corpo.

Troviamo i “libri” di Anna-Elisabeth de Noialles, dove vi è depositato, nel fondo, “come fanno i bambini che mordono le mele,/ il segno dei denti”, e sulle pagine stese “le mani”, “la testa”, il “pianto”, la “fronte” e lo “sguardo” che proviene da ombre e da “tristi sabbie”, sopra le quali la notte è “blu e nera” e si confonde con i capelli;
mentre il testo di Natalie Clifford-Barney chiede la complicità dell’amico lettore, affinché si possa “eludere tutti i giochi del caso,/ congedare la sorte, scegliersi, non troppo tardi,/ i propri veleni”, e inventarsi “un prossimo me-stesso”.
Marianne Moore si spinge più lontano, sceglie un sublime dal basso, nella materia primigenia dalla quale la parola si stacca per diventare Forma: “se pretendi da una parte/ la materia grezza della poesia/ allo stato più grezzo che ci sia,/ dall’altra parte ciò che è genuino, /allora ti interessi alla poesia.” In questo processo alchemico, la mente diventa “una cosa incantata, / come lo smalto sopra/ un’ala di locusta,/ suddiviso dal sole (…)”, la ragione sospende il suo corso per una lucidità nuova, per aprirsi all’ “orecchio della memoria,/ che sa udire/ come l’inclinazione del giroscopio,/ che è davvero univoca perché/ imperante certezza la governa,/ e un potere/ di forte incantamento.”
Per la poetessa rumena Rose Auslander, la parola del testo ha uno “scintillare adirato”, è parola “d’inverno” che si ferma e genera molte poesie, ma non raggiunge quella “danza variopinta delle lettere dell’alfabeto/ consonanti vocali/ vocaboli tasto/ vastità e profondità/ delle parole/ cerco invento/ la parola/ furtiva.”
La spagnola Angela Figuera Aymerich dedica alla figura e alla funzione del 'poeta' una della poesie più belle dell’antologia:


Più di un giorno mi duole di essere poeta.
Di aver labbra, aver gola, che si apprestano al canto.

Ben facile è vivere quando solo si vive
muto e sobrio, schivando stordimenti e ricerche.
Ma colui che è poeta né in mezzo al tumulto
né imboscato otterrà il suo riposo sulla riva.

Perché a occhio senza palpebra è negata la notte
che perenne e insidiosa gli si accende e si affila.
Perché tutto il mistero, gabbiamo stramazzato,
gli martella il lembo delle sue tempie nude
e, in bocca, di impossibile bellezza stremate
s'accalcano e s'inceppano le enormi parole.

Perché egli vive e lo sa. Perché egli muore e lo sa.
Ma quel grido convulso di vita e di morte
è un falcone ribelle divorato da nubi.

Oceani, cicloni, boschi, astri abitano
l'àmbito angusto che il suo cranio circonda.
Uccelli, onde, radici, battiti, armonie,
per la rete dei nervi vibranti l'avvolgono.

Che brama di contorni gli esaspera le dita!
Che brama di cammini gli fa fremere i piedi!
E nel petto gli cresce il suo imperioso destino.

E, né dentro né fuori, sulla fine tangente
che in un punto appena alla certezza si adatta,
vigile e solitario, insonne e sonnambulo,
il poeta mantiene l'insicuro equilibrio.
(Poeta)



Nel finale dell’antologia si arriva allo 'sguardo' di Marina Cvetaeva, un filtro potente capace di rivelare l'anima tragica del Novecento; e la scelta dei curatori cade su una delle più alte dichiarazioni di poetica:


Il poeta

Ci sono al mondo i superflui, gli aggiunti,
non registrati nell'ambito della visuale.
(Che non figurano nei vostri manuali,
per cui una fossa da scarico è la casa).


Ci sono al mondo i vuoti, i presi a spintoni,
quelli che restano muti: letame,
chiodo per il vostro orlo di seta!
Ne ha ribrezzo il fango sotto le ruote!

Ci sono al mondo gli apparenti - invisibili,
(il segno: màcula da lebbrosario)!
ci sono al mondo i Giobbe, che Giobbe
invidierebbe se non fosse che:

noi siamo i poeti - e rimiamo con i paria,
ma, straripando dalle rive,
noi contestiamo Dio alle Dee
e la vergine agli Dei!

Sulla scia di questa preziosa antologia di ampio respiro, la speranza è quella di una rilettura del cànone poetico novecento che includa, e riabiliti, i processi creativi delle scritture femminili. Il tempo ci darà ragione o torto.