28 febbraio 2010

"I miei giorni" di Giuliano Foggi



Nato a Lucca nel 1922 da una famiglia operaia, Giuliano Foggi riuscì a studiare e a laurearsi in lettere presso l’Università di Pisa. Poi, una vita da insegnante spesa negli istituti superiori di Viareggio, Barga, Montecatini, Volterra, Lucca e Pisa a cui si accompagnò un’intensa e costante attività politica e sindacale a livello locale e nazionale.
Nella primavera del 2005, Foggi ha pubblicato I miei giorni 1942 – 1945, MPF Lucca, un originale personalissimo prosimetro, vera e propria “storia di un’anima” di chi aveva vent’anni nel periodo durissimo dell’ultimo conflitto mondiale.
Questa pagine nascono proprio da quel libro, dall’affollarsi dei ricordi, sollecitati a trasferirsi sulla pagina in prosa dalle affettuose richieste degli amici per raccontare ai più giovani un tempo di ferro e di fuoco ma anche di esaltante scoperta dei valori di libertà e democrazia. (Luciano Luciani)



da I miei giorni di Giuliano Foggi

31 Agosto 1943. Pisa.

Stamattina c’è stata veramente una sorpresa, si stavano facendo le ultime prove per l’esame di Caporal Maggiore e io, fortunatamente, l’ho superato.
Poi, a un certo punto, verso mezzogiorno c’è stato l’allarme. E’ sembrata subito una cosa seria perché c’hanno fatto uscire così come eravamo, chi con la divisa, chi con la tenuta sportiva, chi aveva le scarpette da ginnastica. Ci siamo allontanati, dalla parte opposta di Porta a Mare, sulla via Aurelia e abbiamo infilato il viale che porta a San Rossore. Ci siamo sdraiati lungo il fosso. E’ passato molto tempo, tanto è vero che da un momento all’altro aspettavamo il cessato allarme e invece, di colpo, abbiamo iniziato a percepire un forte rumore: erano aerei. Ma non due o tre isolati, erano tutti nel cielo e li vedevamo chiaramente, e poi abbiamo cominciato a sentire i colpi.
Colpi forti che si sentivano distintamente da Porta a Mare, a poche centinaia di metri da dove eravamo noi e dalla nostra caserma. Mi ricordo che la terra tremava e noi eravamo tutti a terra appiccicati e quello che era accanto a me, in un momento in cui sentimmo un rumore spaventoso, mi dette un morso sul culo! Poi, poco a poco, si allontanò questo rumore e ci accorgemmo che andava verso la parte centrale di Pisa. A un certo punto, dopo che era passato parecchio tempo, cessò l’allarme e di corsa ci riportarono in caserma.
Ci fecero uscire subito dopo così come eravamo, senza strumenti e arrangiandoci per trovare qualcosa da metterci addosso, e ci portarono di corsa a 200 – 300 metri al di là del ponte di Porta a Mare. A questo punto ci trovammo davanti ciò che era accaduto: da una parte, lungo il canale c’erano uomini che erano rimasti uccisi e avevano il cervello schiacciato contro il muro del canale. Noi andammo più avanti e arrivammo fino alla fabbrica della St. Gobain e anche lì c’erano cadaveri sia all’interno che all’esterno: c’era un operaio che uscì urlando, era tutto nero, era impazzito. Il comandante, allora, ci fece tornare indietro e ci portò proprio nel centro di Porta a Mare, alla stazione della tranvia, dove c’è la chiesa, i negozi, il barbiere, gli edifici. Arrivati lì vedemmo il campanile fatto a a pezzi , la chiesa mezza diroccata e una donna che usciva dalla porta urlando impazzita anche lei. Ci dettero ordine di cominciare a scavare tra le macerie e noi iniziammo da un edificio alla cui base si trovava il barbiere. Iniziammo a scavare con le mani e a tirare fuori i cadaveri che mettevamo sull’aiuola di destra davanti all’ingresso del ponte sull’Arno, dove ce n’erano già moltissimi, e poi tornavamo a scavare. A un certo punto mi capitò tra le mani la testa di una donna che aveva il cuoio capelluto quasi completamente sradicato: non era morta e in braccio aveva un ragazzino che, senza essere stato ferito, era ugualmente cadavere, molto probabilmente soffocato. E continuammo. Con le mani e basta, senza nessuno strumento.
Arriva uno dei nostri compagni, il quale ci avverte che avevano istituito un servizio d’ordine sul ponte dell’Aurelia nel caso di un’altra emergenza. Poi mi dice: “C’è tuo padre, vuol vedere come stai”. Allora sono andato là, così com’ero. Avevo le mani piene di sangue, fino ai gomiti, e lui era lì in bicicletta, proprio al di là dei soldati. Accanto a lui c’era un uomo. Sapevo chi era, ma non lo riconobbi subito: lavorava come falegname nella zona in cui lavorava mio padre. Erano venuti in bici da Lucca ed erano capitati lì subito perché sapevano dov’era la caserma. Quindi mio padre mi chiese come stavo, con pochi convenevoli tra di noi, ma intensissimi. Tanto che mi aprì il cuore. Mi dice: “Sai, si va verso la stazione, si va a vedere che è successo là” e quindi ci lasciammo. Tornai dentro e continuai a scavare come avevamo iniziato, fino al tardo pomeriggio. Poi, alla fine, eravamo tutti distrutti, ci inquadrarono e tornammo alla caserma che era lì a due passi, visto anche che erano arrivati altri militari a darci il cambio. Quando imboccammo il ponte, sulle due aiuole, cataste enormi, altissime di cadaveri, e poi cominciammo a vedere gente che arrivava in bicicletta…Quelli erano i parenti: andavano verso gli edifici e, vedendoli completamente distrutti, chiedevano informazioni. Poi le donne venivano a vedere sulla catasta e riconoscevano i propri figli.
Noi rientrammo in caserma e ci sorbimmo l’ennesimo rancio.


9 Settembre 1943. Stagno.

Ieri sera, in maniera sbrigativa e confusa, c’hanno detto che era stato comunicato l’armistizio, però né ufficiali, né sottoufficiali aggiunsero qualcosa di più. Per cui siamo andati a letto anche molto preoccupati, chiedendoci quello che sarebbe successo, anche se quello che doveva accadere era già avvenuto stamattina. Appena alzati c’hanno fatto vestire di tutto punto e ci hanno inquadrati, e consegnando a ognuno il proprio fucilino 91, senza elmetto (io avevo ancora le scarpe da ginnastica, perché le altre le avevo consegnate, erano sciupate e non me le avevano ancora cambiate, dicevano che nei magazzini non c’era materiale), c’hanno fatto salire sul camion e hanno portato, tutta la Compagnia, sulla strada per Livorno e a Stagno ci siamo fermati.
Proprio lì dove c’è il ponte sul canale che finisce in mare. Dietro di noi abbiamo visto che stavano arrivando gli altri reparti della Compagnia, ma anche reparti di altre Compagnie che erano alloggiati insieme a noi nella caserma della via Aurelia. Ci hanno disposto in ordine di battaglia ed è toccato proprio a noi, alla I° Compagnia e in particolare alla nostra squadra di essere schierati in prima fila. Il tenente ci dispose in questa maniera: accostati al poggio del canale, avendo però alle spalle il corso d’acqua. Quindi, in caso di necessità di arretrare non so come avremmo fatto. Tanto è vero che ci rivolgemmo al Sergente Maggiore che ci disse di attenerci agli ordini.
Dopo un po’ arriva un prete, probabilmente il parroco della chiesa che si vedeva distante. Ci indirizzò alcune gentili parole e poi ci benedisse, dandoci un augurio di buona fortuna. Noi, tutti contemporaneamente, reagimmo con quel gesto che di solito si compie per scongiurare eventi sfortunati o dolorosi. Poi rimanemmo lì, in attesa, appoggiati a una riva del canale. A un certo punto sentimmo del fracasso lungo la strada e il Tenente e il Sergente si affacciarono. Il fracasso aumentò e dopo poco vedemmo arrivare i carri armati tedeschi che avanzarono fino davanti a noi, occupando interamente la strada, seguiti da reparti a piedi e da altri automezzi. Cominciò un brevissimo colloquio tra il nostro Tenente e il comandante dei carri. Noi avevamo il fucilino 91 con in una tasca forse una decina di cartucce e nell’altra due bombe a mano. Nient’altro. Allora il Tenente parlottò un po’ e poi si rivolse a noi dicendo :”Cediamo le armi, non sappiamo cosa fare”.
Ci guardammo. Il Tenente e il Sergente Maggiore ci stimavano moltissimo, erano quasi nostri amici e potevano avere un anno o due più della truppa. Salimmo sul ponte e ci portarono sul lato della strada dove c’era un casotto. I soldati tedeschi ci presero il moschetto, ma dovevano avere molta paura anche loro perché, per esempio, le bombe a mano non me le levarono eppure si vedevano perché le avevo sul petto. E poi, cosa che ci sorprese, ci lasciarono liberi di andare via e noi ci siamo subito allontanati camminando lungo la riva del canale. A questo punto il Tenente mi si è avvicinato chiedendomi se aveva fatto male a cedere subito le armi: gli ho risposto che se non faceva così sarebbe morto lui per primo. Poi il gruppo si è diviso: una parte tentava di andare verso Pisa, un’altra era decisa a procedere verso sud e un gruppetto, tra cui Bruno Vangelisti, io e altri, prese la strada dei campi in direzione dei Monti Pisani. La meta era S. Maria del Giudice e Lucca: alcuni avrebbero poi proseguito verso nord.
Così abbiamo cominciato ad attraversare i campi coltivati a tabacco e la prima casa di contadini che abbiamo trovato ci siamo fermati e raccontato rapidamente quello che c’era successo. Loro hanno capito subito e ci hanno chiesto se avevamo bisogno di cambiarci, visto che non potevamo andare in giro vestiti da soldati. Allora hanno dato a ciascuno una camicia, un paio di pantaloni e noi gli abbiamo lasciato lì la nostra roba. Così vestiti abbiamo continuato la marcia attraverso la piana di Livorno fino ad arrivare sotto ai Monti Pisani in una zona dove passa l’Arno, che ho subito riconosciuto perché ere la strada che portava a Calci. Me la ricordavo perché l’avevo fatta in bici e a piedi tanti anni prima quando ero nell’Azione Cattolica. Gli altri si fidavano della mia guida e pensavo di prendere la strada lungo monte per arrivare a Santa Maria del Giudice e poi a Lucca. Il ponte non c’era, ma vedemmo che uno con la barca faceva servizio e portava la gente a Badia. Lo faceva per tutti e anche per noi senza volere nulla perché aveva capito la situazione. Scendemmo dalla parte di là e potemmo percorrere la strada sotto monte, fermandoci più volte visto che c’erano le viti che mostravano già dei bei grappoli d’uva. Avevamo fame e iniziammo a mangiare quest’uva. Così, lungo la strada siamo arrivati a San Giuliano: non entrammo in paese, ma, sapendo che avevano terminato la galleria che congiungeva la parte superiore di San Giuliano con Santa Maria del Giudice, che doveva essere l’inizio di un raddoppio della strada del Brennero, prendemmo un sentiero, al margine del paese che saliva su e portava proprio in cima al passo. Anche questo lo conoscevo, perché c’ero stato dalla parte di Lucca. Arrivati in cima, la galleria si è aperta davanti a noi: buia, non terminata, il manto stradale non c’era, solo una copertura grossolana e mancava tutto il resto. Il piano stradale non era tale, ma tutto buche, avvallamenti, e al buio siamo cascati varie volte in quanto non si vedeva nulla. Infine arrivammo dalla parte di là e, a questo punto, ci saremmo divisi, Bruno da una parte, io dall’altra e gli altri avrebbero continuato verso nord. Decisi di non entrare a quell’ora a Lucca perché mi sembrava pericoloso.

9 Settembre 1943. Santa Maria del Giudice. Sera.

Dopo il foro di San Giuliano c’era ancora luce e si vide Lucca. Tutta la notte ho sentito l’odore delle mele, non potevo vederle nel buio della stanza, ma erano lì, sul cassettone di fronte al letto. “Quest’anno non potremo vederci alla casa di campagna” mi aveva scritto Marta ai primi di luglio. La fuga da Stagno iniziata la mattina era finita in una galleria buia, piena di buche. Appena fuori, l’ampia valle splendente di verde: in mezzo la città. Ho bussato ugualmente alla casa di campagna e la zia di Marta mi ha accolto, senza chiedere nulla. E ora dormivo nella stanza odorosa di mele. Ancora non potevo sapere: Marta era malata e sarebbe morta qualche giorno dopo. Proprio Marta e Giuba erano state le prime conoscenze che avevo fatto in treno i primi giorni che andavo all’università. Eravamo nel 1942. Erano carine e gentili, erano tutte e due ‘anziane’, facevano il terzo anno e io ero una matricola. E allora, subito, senza che io dicessi loro nulla mi presero sotto la loro protezione. Giuba la conoscevo vagamente perché stava in un bellissimo palazzo in piazza San Pietro con una splendida veranda e siccome io sto lì a due passi, in via del Biscione, erano posti che conoscevo molto bene e mi era capitato, quindi, di vederla. In treno, ma anche all’università mi hanno protetto perché le matricole erano proprio trattate male, anche se avevano pagato la cena o il pranzo, e così via. E dovendo usare mezzi pubblici, come il treno, accadeva che degli ‘anziani’ entrassero nel vagone e facessero scendere le matricole prima del tempo. Anche un paio di miei carissimi amici, con cui avevo fatto il liceo assieme, sono dovuti scendere più di una volta a Rigoli o a Ripafratta. Poi questi universitari venivano da me per fare altrettanto e le due ragazze dicevano loro, tranquillamente, che erano ‘anziane’ e che io ero con loro. E secondo le regole goliardiche questi se ne andarono e mi lasciarono in pace. Da questo rapporto amichevole è nato, poi, un rapporto di più stretta amicizia tra me e Marta che è continuato per vari mesi durante il periodo in cui ero a Sassuolo a fare il corso e anche dopo. Le poche volte che sono venuto a casa l’ho sempre incontrata, stavo 5 – 10 minuti a casa mia, poi andavo per 2 – 3 ore da lei prima di riprendere il treno per Sassuolo. Poi successe qualcosa e mi scrisse una lettera, a luglio. E la sera, passata nella casa della zia di Marta, è dentro di me, come qualcosa che rappresenta più di un ricordo, come se fosse stato l’ultimo incontro. Perché era la casa dove ci eravamo visti, fatto merenda, da cui eravamo partititi per salire la cima del monte, e, tornando, la mano mia nella sua.




Luglio – Agosto 1944. Lammari.

Sono tornato a casa i primi di luglio, a casa per modo di dire, perché i miei come tanti altri sono sfollati nella campagna lucchese. Una conoscente, o meglio un’operaia che lavora con mia madre nella Manifattura ci ha trovato un alloggio lì a Lammari, a casa di un vecchio contadino a pochi passi dalla chiesa. Da questo momento sono sempre stato imboscato, nascosto come tanti altri giovani del paese o sfollati che erano nelle mie stesse condizioni. E allora, a poco a poco, abbiamo cominciato a trovarci e a passare i pomeriggi al sicuro in fondo ai campi di granturco, giocando a carte. Mi sono accorto che a giocare a carte avevo fortuna, i lammaresi sono famosi giocatori, e quindi sono riuscito anche a guadagnare qualche soldo. Così passavamo il tempo, sempre però attenti, preoccupati di quello che succedeva. Le notizie le sapevamo da alcuni nostri compagni che venivano da Capannori, i quali erano in rapporti con i partigiani pisani che erano sul Monte Serra, che ci dicevano come andavano le cose nella piana pisana, cosicché noi n’eravamo sempre al corrente con la speranza che gli Americani occupassero Pisa e che, passato il Monte Serra, arrivassero a Lucca. Il resto del tempo lo passavamo in una corte vicina con un paio di ragazze: una era di lì, del paese; l’altra era una viareggina sfollata che faceva la parrucchiera e la manicure. E stavamo per delle ore in fondo ai campi a chiacchierare, con i piedi dentro i cataletti di irrigazione che venivano dal Serchio perché faceva molto caldo. Dopo un po’ di tempo tra me e una di queste ragazze è nato un rapporto più ravvicinato e mi ricordo che la sera andavamo in questa corte e facevamo veglia sull’aia con i genitori di lei e gli altri. Una sera, mentre eravamo lì, arriva la notizia che c’erano in giro, le pattuglie tedesche che stavano rastrellando e quindi, anche se la mia casa era a due passi, non vollero che facessi quei 200 – 300 metri e mi fecero dormire da loro. Dormii su in soffitta, benissimo. E la cosa mi piacque pure perché era una variante della solita vita.
Tante volte per poter essere libero, per poter fare due passi e muovermi, usavo camuffarmi: mi facevo la barba tutti i giorni, già l’avevo radissima, e poi mi facevo dare una sottana da mia sorella, un reggipetto, e stavo nell’orto. Sembravo una ragazza, infatti le pattuglie tedesche che sono passate non ci hanno mai fatto attenzione. Però, una mattina mentre mi lavavo nel fosso che passava sotto casa, ero vestito con i pantaloncini corti da ragazzo. Passò una pattuglia tedesca che mi prelevò,visto che nessuno ci aveva avvisato del loro arrivo. Mi hanno fatto mettere le scarpe e ho visto che avevano prelevato anche altri giovani del posto e ci hanno portato quasi al confine del paese di Lammari, su un poggio un po’ rialzato. Sembrava di capire che dovevamo scavare una trincea e, nel mentre che davano ordini, tutta spaventata è arrivata mia madre, che non era a lavorare. Le dissi di stare tranquilla che in qualche modo avremmo fatto. E’ successo proprio così. Poi è arrivata un’altra pattuglia tedesca e un soldatino, che doveva essere più giovane di me, mi ha detto: “Tu essere piccolo, bambino, tornare a casa, via” e non credo di essermelo fatto ripetere due volte. Sono rientrato a casa e a mia madre ho semplicemente detto che ero tornato. Per quella volta è finita lì.


10 settembre 1944. Lammari. Lucca.

Dalla mattina del 6 settembre i tedeschi hanno abbandonato il paese. Il 7 e l’8 sono andato in città: gli abitanti avevano paura che entrasse gente pericolosa e noi gli abbiamo chiesto di lasciarci passare. Ci hanno detto di attraversare una di quelle sortite lungo le Mura e lì ci siamo recati: quella che si trova in corrispondenza della Manifattura Tabacchi, dove ci sono le strutture sportive. Sapevamo che lì, intorno al baluardo c’era un ingresso. Siamo arrivati e abbiamo visto il Pallone, ampio, che finisce in una stradina stretta. Tanto è vero che, io lo sapevo da mia madre, quando c’erano i raid aerei i cittadini lucchesi e i dipendenti della Manifattura si rifugiavano là dentro. Allora siamo entrati con le biciclette in mano e lo spettacolo che abbiamo visto era questo: tanta gente giovane, vecchia, donne, bambini, sistemata con brande, brandine, carrozzine, utensili da cucina e per accendere il fuoco. Abbiamo percorso tutto il Pallone del Baluardo San Paolino uscendo in Lucca dalla parte opposta. Da qui siamo andati diretti alle Scuole Elementari in piazza Santa Maria Bianca perché ci avevano detto che c’era uno dei centri del Comitato di Liberazione da cui avere informazioni. Qui ci assegnarono subito un incarico: recarci da don Giurlani, parroco di Pelleria, il quale sin dall’8 settembre si era messo in mostra per la sua attività antitedesca e antirepubblichina, ospitando gente, trovando sistemazioni a molti. Addirittura, ero presente io, quando, nei primi giorni dopo l’8 settembre in casa sua furono nascoste le armi che la gente aveva preso per utilizzarle come poi avvenne. Negli ultimi tempi su don Giurlani si avvertiva, pesante, la pressione delle autorità repubblichine e di conseguenza il Comitato di Liberazione Nazionale aveva deciso di farlo sparire e per questo lo avevano mandato a rifugiarsi nella chiesa di San Pietro a Vico. A due passi dal grande mulino. Siamo andati a trovarlo il giorno dopo: don Giurlani era tutto contento che ci avessero mandato a richiamarlo, ma aveva ancora paura di tornare in città. Ci disse di riferire che tornava volentieri ma dovevano venire a prenderlo con 2 – 3 partigiani per sicurezza. Allora noi torniamo alla scuola per riferire ciò che ci era stato detto. Ci dissero di lasciare il nostro nome per comparire come partigiani o collaboratori alla liberazione, ma noi rispondemmo che avevamo semplicemente fatto questa cosa e non volevamo apparire per quello che non eravamo o per quello che non avevamo fatto.