15 dicembre 2009

"La morte di Felice Cavallotti"



di Luciano Luciani


Parole e musica di un anno durissimo
Il 1898, che doveva rivelarsi come uno degli anni più duri e drammatici nella ancor breve storia del giovane stato unitario, era iniziato davvero male. Il gelo dell’inverno non aveva ancora lasciato il passo ai primi tepori primaverili, quando, nel pomeriggio della prima domenica di marzo, si spargeva improvvisamente la notizia della tragica morte di Felice Cavallotti.

Scrittore, uomo politico della estrema sinistra parlamentare, grande e combattivo avversario prima del trasformismo di Agostino Depretis, poi delle tendenze autoritarie e imperialistiche di Francesco Crispi, suo antico e più anziano compagno nella spedizione dei Mille, Cavallotti non disdegnava risolvere con un duello le vivaci polemiche e gli aspri contrasti che gli derivavano da un‘ intensa ed appassionata attività giornalistica e parlamentare. L’ennesimo, quello del 6 marzo 1898 con il deputato monarchico e crispino Ferruccio Macola gli fu fatale. Narrano le cronache che “al terzo assalto Cavallotti…accaloratosi nello scontro investiva all’impazzata l’avversario e la sciabola di questi gli si conficcava nella gola tagliandogli la trachea e uccidendolo quasi all’istante.”

Enorme l’impressione e unanime il compianto per la morte del “bardo della democrazia”: il Parlamento decretò un lutto di otto giorni ed espressioni di cordoglio giunsero da mezzo mondo, dalla Camera dei deputati francese come dai Parlamenti di Grecia e di Bulgaria! A Roma sembrò che l’intera città partecipasse al lutto per la scomparsa del protagonista generoso e disinteressato di tante battaglie parlamentari e giornalistiche; a Milano i funerali risultarono imponenti con una straordinaria presenza di popolo e di autorità. Larghissimo l’intervento della sinistra politica: radicali, repubblicani, socialisti…Per le autorità di polizia una prova in più per affermare che il tale occasione erano state gettate le basi della ‘rivoluzione’ che, qualche settimana più tardi, avrebbe dovuto scuotere Milano e l’Italia.

Non mancò neppure chi, come il poeta Lorenzo Stecchetti, intravide in quella vicenda il risultato di oscure trame crispine, finalizzate all’eliminazione di un irriducibile avversario politico. Così, con la foga oratoria propria del periodo, il poeta forlivese si rivolgeva a Francesco Crispi individuato come il mandante di Macola:…

Nel mortal duello/ non fu tua la vittoria./
Con un colpo di spada o di coltello/
non si uccide la Storia!

La storia naturalmente “non si uccide” e non si ferma…e di lì a poche settimane la questione sociale irrisolta trascurata da Crispi e dai suoi successori avrebbe reclamato con forza i suoi diritti.

Canta che ti passa
Dal Nord al Sud della penisola agitazioni e tumulti causate dall’aumento del prezzo del pane riproponevano drammaticamente il tema delle durissime condizioni materiali di vita delle classi subalterne: nell’inverno e nella primavera di centodieci anni or sono Sicilia, Emilia, Romagna, Marche diventano il teatro di manifestazioni per il pane, il lavoro e contro un esoso sistema fiscale che arrivava a tassare addirittura gli animali da tiro. Particolarmente gravi gli incidenti che avvennero ad Ancona, dove, per riportare la calma, il governo è costretto a far intervenire due squadroni di cavalleria e ricorrere a massicci arresti di avversari politici. A guidare la repressione quel generale Baldissera che aveva negoziato la pace col Negus Menelik dopo la sconfitta di Adua del 1896 e che, partendo per la sua missione africana, era stato accompagnato dalla celebre e beffarda canzoncina Baldissera, Baldissera/non ti fidar di quella gente nera…

Intanto in Veneto e in Lombardia già da qualche anno circolava La boje, un canto che accompagnava di solito le mobilitazioni e i moti contadini sempre più numerosi a mano a mano che ci si avvicinava alla fine del secolo: La boje, la boje e de boto la va de fora (Bolle, bolle e all’improvviso trabocca). Soggetto implicito, ma chiarissimo nella coscienza sia dei padroni sia degli sfruttati, la rabbia delle classi subalterne sempre più simile all’acqua di un pentolone che procede verso un’ebollizione inarrestabile.

Al brontolio delle plebi affamate faceva riscontro il cicaleccio un po’ vacuo di una borghesia non all’altezza dei problemi, testimoniato dal successo di canzonette “canta che ti passa” come la celeberrima Ciribiribin:

Ciribiribin, che bel faccin,
che sguardo dolce ed assassin!
Ciribiribin, che bel nasin,
che bel dentin, che bel nasin…

Le stragi di maggio
Intanto si approssimava il sanguinoso maggio del 1898: nei primi giorni di quel mese l’esercito fa sei morti a Bagnocavallo, cinque a Molfetta, uno a Piacenza, uno a Figline Valdarno, quattro a Sesto Fiorentino, due a Livorno…
Questa nuova geografia della repressione doveva trovare a Milano la propria capitale: il 5 maggio a Pavia, la polizia interviene duramente per reprimere una manifestazione popolare e uccide il giovane figlio del sindaco della città. A Milano il sindacato stampa dei manifesti di protesta, di cui viene impedita la distribuzione e l’affissione. Anzi, questo episodio viene usato dl generale Fiorenzo Bava Beccarsi per imporre lo stadio di assedio alla città e scatenare una vera e propria caccia all’uomo per le vie di Milano. Si spara contro i passanti per strada, contro coloro che ardiscono affacciarsi alle finestre, contro gli uomini, le donne, i bambini. I soldati, fanatizzati contro “il nemico interno”, non esitano ad assalire il convento dei frati di Corso Manforte e scambiano i mendicanti in fila per ricevere la quotidiana ciotola di minestra per pericolosi sovversivi: a colpi di cannone radono al suolo il muro di cinta dell’istituto religioso e li assaltano con le baionette innestate. Una strage.

Così racconta quelle tragiche giornate Paolo Valera, scrittore tardo – scapigliato e giornalista di orientamento socialista:
“Ero circondato da feriti che imploravano soccorso, e da morti che mi guardavano in faccia con la loro faccia gelata e coi loro occhi ingrossati e spaventati dalla morte. Non dimenticherò mai quello dalla testa scallottata. Il disgraziato era tutto impillaccherato del suo sangue. I capelli alle pareti craniche ne erano incatramati e le guance e il collo ne erano lastricati. Giaceva come un orrore. In quel momento non ho potuto trattenermi in gola la parola concitata. Io ho detto qualche cosa contro i soldati, ho detto che non avrei mai fatto il soldato” (P. Valera, I cannoni di Bava Beccaris, Milano 1966, pp. 37/38).
Milano venne trattata come una città nemica e la strage durò tre giorni: alla fine si contarono 118 morti e 450 feriti secondo il governo, più di 400 morti e oltre 2000 feriti per l’opposizione.

Una repressione durissima
Durissima anche la repressione che tenne dietro: voluta da un governo ossessionato dal pericolo”rosso” e da quello clericale, rischiò di portare il Paese sull’orlo della guerra civile. Centinaia e centinaia gli arrestati, cui vennero inflitte migliaia di anni di reclusione: repubblicani, cattolici, anarchici, socialisti, sindacalisti, organizzatori di mutue e leghe di resistenza fecero la conoscenza delle patrie galere.

I nomi? Filippo Turati e Anna Kuliscioff, Andrea Costa e Leonida Bissolati, don Davide Albertario e Gustavo Chiesi: intellettuali ed operai, separati nella società civile, si ritrovarono uniti da una repressione feroce ed ottusa.

Facciamo parlare ancora Paolo Valera che fu cronista e testimone sia delle stragi di maggio sia della successiva vendetta giudiziaria voluta dal governo:
“In camerata non eravamo più che delle cifre. Gustavo Chiesi era divenuto il numero 2555, Carlo Romussi il 2556, don Davide Albertario il 2557, Bortolo Federici il 2558. Paolo Valera il 2559, Costantino Lazzari il 2560 e Achille Ghiglione il 2561…A mano a mano che si veniva chiamati, si andava vicino al cancello a ricevere la ‘bianchieria’. Per asciugarci la faccia e tutto il corpo, ci avevano dato una pezzuola di canape ruvido, a rigoni spaventevoli, a listoni alternati che andavano dal bigio al cioccolato – due colori che porto nella testa con orrore. Perché sono le striscie che rappresentano la casa di pena e riassumono l’emblema del reclusorio…” (pp. 168/169).

Giosue Carducci, letterato ormai stanco e filosabaudo, definì quella vicenda “le cinque giornate di Milano alla rovescia”. Anarchici, socialisti e repubblicani ricordano ancora oggi quegli eventi luttuosi con una dolente canzone che, affidata a cantastorie, “volantoni” e canzonieri, fece il giro d’Italia per arrivare fino ai nostri giorni:


Alle grida strazianti e dolenti
di una plebe che pan domandava
il feroce monarchico Bava
gli affamati col piombo sfamò.

Furon mille i caduti innocenti
sotto il fuoco degli armati Caini
e al furor dei soldati assassini
“Morte ai vili”, la plebe gridò


Deh, non rider, sabauda marmaglia
se il fucile ha domato i ribelli
se i fratelli hanno ucciso i fratelli,
sul tuo capo quel sangue cadrà.

La panciuta caterva dei ladri
dopo avervi ogni bene usurpato
la loro sete ha di sangue saziato
in quel giorno nefasto e feral.

Su piangete, mestissime madri,
quando scura discende la sera
per i figli gettati in galera
per gli uccisi dal piombo fatal.

Tempestoso lo scenario sociale e politico italiano di oltre cento anni fa. Forse proprio per questo nelle strade, nelle piazze, nei teatri, nei café - chantant furoreggiavano O sole mio e la sua aria serena dopo ‘na tempesta. Un testo con cui si alimentava l’immagine di una Napoli – e di un’Italia – tutta sole e allegria, amore e passione. Non era affatto così, ma era questa la rappresentazione del Bel Paese destinata ad affermarsi, per decenni, nel mondo.