21 dicembre 2009

"Baffi e tiranni" articolo di Luciano Luciani




Se è vero che “barba non facit philosophum” i baffi, però, hanno fatto paura. Sì, nella prima metà del XIX secolo, in taluni dei regimi dispotici che opprimevano il nostro Paese, l’onore e l’ornamento del labbro superiore, i baffi, hanno destato più di una preoccupazione: essi erano il segno, o almeno così venivano percepiti dal potere di allora, della ribellione a ogni prepotenza e di una ben manifesta volontà di lotta. Chi li portava era un carbonaro, un liberale, un cospiratore. Pertanto i baffi erano vietati e perseguito con la galera chi ne faceva sfoggio.

A Modena, più di un secolo e mezzo fa, l’ottuso governo locale aveva emanato in tal senso ordinanze assai severe: al punto che i pacifici sudditi, per evitare guai, avevano preso l’abitudine di radersi regolarmente e di offrirsi alla vista coi volti lisci, netti, liberi dai fastidi della peluria e dalle attenzioni dell’occhiuta polizia ducale. Anche gli stranieri erano soggetti all’inflessibile legge del rasoio, cosa che dette luogo una volta a una comica vicenda di cui fu protagonista Felice Romani, letterato genovese, celebre allora per i libretti d’opera scritti per i più famosi musicisti del tempo come Rossini, Donizetti, Bellini, Verdi.

Francesco IV d’Este duca di Modena, il feroce carnefice del prete rivoluzionario don Andreoli e di Ciro Menotti, amava come si dice oggi, “fare immagine” e passava per amante delle arti e protettore in modo particolare della musica e dei suoi protagonisti. A tale proposito aveva invitato Vincenzo Bellini a sovrintendere alla “prima” del suo capolavoro, la Norma, nel suo teatro cesareo: il musicista catanese aveva accettato di buon grado, purché all’allestimento dell’opera partecipasse anche il Romani, autore del testo poetico.

E fu così che, in una bella mattina di sole, l’uomo di lettere ligure se ne andava tranquillamente a passeggio per le vie della città emiliana, godendosi la giornata, fiero del suo bel cilindro, della sua mazza e soprattutto dei suoi visibilissimi mustacchi. Tutto bene fino a quando, sotto la Ghirlandina, la torre tanto cara ai modenesi, il Romani con la coda dell’occhio si accorse di essere seguito ed osservato con estrema attenzione da un signore tutto vestito di nero che non lo perdeva un attimo di vista. Lui si spostava e quello lo seguiva; affrettava il passo e quello dietro, accelerando l’andatura. Questo gioco andò avanti finché il poeta non venne raggiunto dal suo persecutore che si qualificò per funzionario della polizia ducale e gli chiese di esaminare i suoi i documenti personali. Non soddisfatto, pregò il Romani di seguirlo, lo condusse in una bottega da barbiere, invitandolo a sedersi su una delle accoglienti poltrone di velluto rosso per sottoporsi all’immediato taglio dei baffi.

Ma il Romani non aveva intenzione di rinunciare a quelli che, oltre a tutto, rappresentavano una tradizione della parte maschile della sua famiglia. Si recò allora immediatamente presso la sede della polizia per farsi vistare il passaporto per l’immediata partenza dallo Stato.

I funzionari di polizia rimasero colpiti da quell’individuo baffuto che con tanta dignitosa autorità aveva sostenuto le sue ragioni “estetiche”. Non era improbabile che si trattasse di un personaggio ragguardevole, per cui riferirono la cosa ai loro superiori i quali, a loro volta, la riportarono al “serenissimo duca”.

Questi, in un primo tempo, ne rise; poi considerò l’accaduto con qualche preoccupazione e concluse che concedere libera circolazione al Romani munito dei suoi mustacchi avrebbe potuto costituire un precedente nocivo per la sua autorità. Pertanto, in quella grave contingenza, mostrò una fermezza degna di un grande monarca e sentenziò: o l’immediato taglio dei baffi o l’espulsione dal ducato.

Quando seppe, però, che anche Vincenzo Bellini, per solidarietà con il suo librettista, avrebbe a sua volta abbandonato Modena e che la “prima” della Norma sarebbe stata forse compromessa, ci ripensò. Anche perché gli era stato riferito del malumore creatosi in teatro tra gli artisti, alcuni dei quali minacciavano di sospendere le prove in segno di protesta.

Feroce ma non sciocco, Francesco IV valutò allora che l’incidente avrebbe avuto una risonanza del tutto negativa per la sua fama di principe saggio e paterno protettore delle arti belle. Decise di venire allora a più miti consigli, convocando in fretta, come nelle contingenze più gravi, i suoi più fidati collaboratori, per cercare insieme a loro un rimedio che appianasse la questione senza perdere la faccia.
I migliori cervelli ducali si concentrarono e dopo un’intensa riflessione trovarono la soluzione di permettere al poeta di permanere nello Stato e circolare liberamente durante l’allestimento e la rappresentazione dell’opera belliniana. Al tempo stesso, però, allo scopo di tutelare l’integrità della legge si sarebbe provveduto a far circolare per la città la voce che il signore tanto arditamente baffuto era l’inviato di un governo straniero giunto a Modena per trattare delicate questioni di importanza internazionale.

Così, mentre Felice Romani era nel suo albergo a fare le valige, arrivò un messaggio del duca per comunicargli le superiori deliberazioni, informandolo anche del ruolo inconsueto che egli avrebbe dovuto sostenere. Il poeta, allora, dopo aver indossato il più sgargiante dei suoi abiti e controllata accuratamente allo specchio la forma dei mustacchi che avevano corso un così serio pericolo, uscì soddisfatto per la città con incedere austero e dignitoso.

Intanto Francesco IV per mezzo degli agenti della sua propaganda aveva sparso la storiella del plenipotenziario estero in missione segreta. E allorché il poeta fece la sua passeggiata per Modena fu oggetto di timorosa riverenza e di perplessa curiosità. Guardandolo i modenesi pensarono a macchinosi intrighi di cancellerie, a complesse trattative di carattere politico e non mancarono quanti pensarono che da una parola sola di quell’uomo baffuto poteva dipendere, forse, l’incombere tragico della guerra sulle loro case. Dopo la prima esecuzione della Norma il Romani si affrettò a partire e nessuno pensò più a lui. Anche il duca, quando seppe che per la città non circolavano più quei vistosi baffi che avrebbero potuto far balenare nella mente dei suoi fedeli sudditi le sovversive parole cospirazione e rivolta, sorrise beato, quasi libero da un’inquietudine strana ed indefinibile. Era convinto, il tiranno, che l’accorgimento geniale d’aver messo al bando barbe e baffi sarebbe stato sufficiente a deviare il corso fatale della storia.