24 ottobre 2009

"O Gorizia, tu sei maledetta: versi semplici e terribili contro la Grande Guerra" di Luciano Luciani




Estate 1916
Lo scenario è quello della Grande Guerra: estate del 1916, settore orientale. L’esercito italiano è schierato davanti a Gorizia presidiata dagli austriaci saldamente insediati lungo un sistema difensivo che fa perno sulla città e sul fiume Isonzo, articolandosi sulla destra verso il Sabotino e il Podgora e appoggiandosi sulla sinistra alle alture del Monte Santo, del San Gabriele, del San Daniele e San Michele. Posizioni militarmente forti, su cui, nei primi 16 mesi di guerra, si sono infrante ben quattro offensive italiane che sono costate perdite gravi e già migliaia di fanti sono caduti in reiterati attacchi frontali. Inferiori ai sacrifici di vite umane i risultati ottenuti: appena un po’ di terreno davanti alla città e qualche lembo di terra sul margine occidentale del Carso.

Assai più determinata l’offensiva condotta nello stesso settore di fronte nell’agosto 1916. Affidato alla III Armata il compito di conquistare la testa di ponte austriaca sulla destra dell’Isonzo davanti a Gorizia, l’attacco italiano, preceduto da una sistematica, battente azione di artiglierie iniziò il 6 agosto 1916 ed ebbe il suo momento culminante nella conquista del monte Sabotino. Nello stesso giorno è conquistato il Podgora, mentre gli austriaci resistono nella zona di Oslavia. L’8 agosto abbandonano la testa di ponte e, a questo punto, il gen. Capello, comandante del VI Corpo d’armata, decise di passare il fiume e di conquistare di slancio Gorizia e le ben difese posizioni del San Gabriele e del San Michele a est della città. A Gorizia gli italiani entrano il 9 agosto e iniziano l’attacco alle restanti linee di difesa austriache che resistono strenuamente. “17 agosto: dopo quattro giorni di sforzi vani e sanguinosi contro la nuova linea di difesa austriaca, l’offensiva italiana è sospesa.”(A. Tosti, Cronologia della guerra mondiale 1914 – 1918). Il gen. Cadorna ordina la fine dell’offensiva: era terminata la sesta battaglia dell’Isonzo.

Raccontata così, col linguaggio degli storici, la guerra presenta solo il lucido nitore geometrico di una partita a scacchi, ma la sua vera natura è un’ altra. E’ fatica, sudore, paura, sofferenza, lutti. E’ il fango delle trincee e il sangue dei feriti e dei caduti che impasta la terra… Sono i poveri corpi falciati a migliaia sui fili spinati, fatti a pezzi dalle schegge dell’artiglieria, abbandonati insepolti al caldo impietoso di quella estate.

All’esaltazione nazionalistica per una tanto faticata vittoria subentrò in breve un sentimento di orrore per i tragici costi umani di quella vicenda bellica: circa 50.000 soldati e 1759 ufficiali caduti di parte italiana, 40.000 e 862 ufficiali per gli austriaci. Una carneficina, che favorì la nascita e la circolazione di un largo e condiviso stato d’animo di ripugnanza per la guerra, testimoniato da alcuni canti di protesta. Tra i più belli, diffusi e significativi dell’intero conflitto 1915 – 18 il testo che segue, intitolato O Gorizia, tu sei maledetta, nelle cui strofe, come osserva Sergio Boldini, apprezzato studioso della espressività popolare, si ritrovano “ la violenza, l’inutilità e il dolore della guerra, gli affetti che si perdono, la discriminazione di classe fra soldati e ufficiali, i morti che non ritornano”.

1
La mattina del cinque di agosto
si muovevano le truppe italiane
per Gorizia e le terre lontane
e dolente ognun si partì.

2
Sotto l’acqua che cadeva a rovesci
grandinavano le palle nemiche;
su quei monti, colline e gran valli
si moriva dicendo così:

3
“O Gorizia, tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza!”
Dolorosa ci fu la partenza
che ritorno per molti non fu.

4
O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letti di lana,
schernitori di noi carne umana
questa guerra ci insegna a punir.


5
Voi chiamate il campo d’onore
questa terra di là dei confini;
qui si muore gridando “Assassini!”
maledetti sarete un dì.

6
Cara moglie, che tu non mi senti,
raccomando ai compagni vicini
di tenermi da conto i bambini
che io muoio col tuo nome nel cuor.

Versi semplici, come si può leggere, ma dolenti e terribili nella loro capacità di dare anche espressione estetica a una dolorosa consapevolezza antimilitarista e di classe. Un canto di protesta che avrebbe inquietato ancora per almeno mezzo secolo la cattiva coscienza di graduati e Stati maggiori. Infatti, riproposto quasi mezzo secolo più tardi, nel 1964, al teatro Caio Melisso di Spoleto in occasione del Festival dei Due Mondi da un agguerrito gruppo di musicologi e folksingers ( Roberto Leydi, Giovanna Daffini, Giovanna Marini, Caterina Bueno, Sandra Mantovani, Michele L. Straniero) innescò una vivace polemica: alcuni ufficiali presenti in sala si ritennero offesi dai duri giudizi presenti nel testo, si alzarono rumorosamente e uscirono al grido di ‘viva gli ufficiali!’ Applausi, fischi, brusio in sala: lo spettacolo viene interrotto e le repliche dei giorni successivi vedranno addirittura un tentativo di ‘marcia su Spoleto’ da parte di un gruppo di estremisti di destra autoproclamatisi difensori del buon nome dell’esercito e delle sue tradizioni. “Qualche sera dopo gli spettatori dovevano subire una seconda chiassata di giovinastri, venuti con appositi camion da tutte le province vicine. Ma questa era una cosa che non interessava i poliziotti in servizio. Vietato cantare Gorizia, ma non Giovinezza, le cui lugubri note hanno riecheggiato per le strade della cittadina umbra” (“Vie nuove”, n. 27, luglio 1964). E siccome siamo in Italia, patria del diritto e dei contenziosi giudiziari, non mancò la solita denuncia alla magistratura contro gli organizzatori e l’intero cast dello spettacolo per oltraggio alle forze armate. Ma “L’episodio di Spoleto” scrive Stefano Pivato, storico del costume dell’Italia contemporanea “è, senza dubbio, quello che con più scalpore mette in rilievo i legami ormai profondi tra il mondo della musica popolare e la realtà della protesta pacifista che, in quella metà degli anni Sessanta, monta negli ambienti studenteschi, anche in Italia” (S. Pivato, Bella ciao Canto e politica nella storia d’Italia, 2005).