05 luglio 2009

"Sei tamburo che rulla" di Letizia Pantani

di Igor Vazzaz


Che statuto ha, oggi, la poesia? La domanda rimbalza da decenni sulle riviste specializzate, rilanciata da autori, critici, esperti e appassionati, senza però trovare mai una risposta definitiva. Nell’abbacinante esplosione delle estetiche, nel velocizzarsi assoluto della comunicazione, la poesia, quella scritta per la lettura o, talvolta, per la declamazione, sembra ancorata a una dimensione riflessiva, meditativa, antipodica agli assunti di rapidità, diffusione e maneggevolezza del contemporaneo. Ed è così che poeti operano nella quasi completa dimenticanza, almeno a livello realmente popolare: interrogato circa la realtà della poesia italiana contemporanea, è difficile che un non appassionato riesca ad aggiungere qualche nome a quelli di Mario Luzi, Alda Merini o Edoardo Sanguineti.

L’ambito della riflessione non equivale necessariamente a quella del silenzio: questo il pensiero suggerito dalla prima, vorace, lettura di Sei tamburo che rulla, raccolta di scritti e poesie di Letizia Pantani, pubblicata di recente dall’editore lucchese Daris Libri. Dell’autrice, molti ricorderanno il sorriso, l’agire politico, la dolce caparbietà e l’amicizia. Quell’amicizia, stretta e incomunicabile, che rende vischioso e difficile qualsiasi commento critico, sospeso tra il timore del lamento e la distanza forzata di un’analisi asettica. Quell’amicizia interrotta dalla morte di Letizia, improvvisa, disperante, ingiusta.

Le due sezioni del libro, curato da Gianni Quilici e dalla madre dell’autrice Maila Grazzini, insegnante di lettere con studi filologici alle spalle, corrispondono a rispettivi, e distinti, modi comunicativi: il confronto dialogico contrapposto al monologismo endemico del componimento poetico vero e proprio.

La prima parte, infatti, ha per titolo Dialogo ed è composta da un rapporto epistolare che abbraccia l’arco di circa un anno, da giugno 2006 a giugno 2007. Letizia presenta, con molta discrezione, i propri componimenti misti a considerazioni, domande, informazioni sul proprio agire quotidiano, l’andamento dei propri studi e un mai sopito atteggiamento di ricerca, suo tratto caratteristico, non solo letterario. Per quanto i testi siano soltanto quelli che l’autrice si respira, in questo interrogare mai domo, una profonda tensione dialogica, un’insopprimibile necessità di confrontare le idee, le forme, sino all’estremo della contaminazione.

Letizia Pantan si dimostra, da un lato, timida, quasi schiva, con i dubbi di chi si sente alle prime armi, dall’altro, al contrario, dimostra in varie occasioni una sensibilità estetica matura, una profonda coscienza del poetare, frutto d’una meditazione fortemente legata alla propria biografia di donna. È questa, in un certo senso, la parte più sorprendente della raccolta, anche da un punto di vista letterario, a partire dall’avvertenza «provo a risponderti senza troppa punteggiatura (…) come a dire / riprendi fiato e metti un respiro di pensiero / e seguimi ancora» (p. 18) che ha i tratti e del suggerimento a chi legga e dell’invito, intimo, accogliente, a condividere i frutti della propria scrittura. In tutto questo, è ben presente l’impronta di Letizia: una passione, mai priva di lucidità, una profondità di pensiero che mai rinunciava al sentimento, sino al rischio dell’empatia.

I testi delle mail recano tracce di versificazione: la costruzione del discorso procede per respiri corrispondenti al tratto che l’occhio deve percorrere nel leggere da una riga alla successiva. In queste pagine si susseguono riflessioni, resoconti di serate, incontri, progetti in cui il binomio silenzio–voce, «adesso il pensiero silente mi accompagna» (p. 18), rappresenta una matrice dell’intero volume.

Le due raccolte di componimenti, At-tese ed Esilio, così disposte e raccolte dalla stessa autrice, evidenziano anch’esse la dicotomia d’una poesia come meditazione profonda, riflessione sul sé, improntata al silenzio dell’atto di pensare, e vissuta, al contempo, quale slancio, tentativo, carezzato o solo ponderato, d’una presenza vocale dalla forza innegabile. È così che si può proporre d’interpretare la rara musicalità di alcuni episodi: l’incedere di canzone in Scriptoria, il cui primo verso dà il titolo all’intero volume, ove la sequenza di settenari s’infrange con l’irregolarità solo apparente d’una stanza di nove versi, quasi fosse un’ottava caudata. La chiusura della seconda e ultima strofa, infatti, rappresenta una sferzata inattesa, spiazzante, nel ritorno, certo amaro, a una realtà «dopo questa commedia». Non diversa, sotto il profilo sonoro, La solitudine del naufrago, componimento alquanto regolare sotto il profilo metrico, denso d’evocazione metaforica, non distante da una sensualità dolente e materna.

Le due raccolte sono legate a doppio filo, sia nella consonanza d’una versificazione d’impronta intimistica e un uso discreto, ma sonoro, della lingua sia nell’inevitabile distanza di un differente taglio contenutistico: At-tese fa propria la poetica della nebbia, come esposto nella poésie en prose dell’incipit, tema caro alla lirica italiana, strettamente connesso alla separazione dal mondo, alla scelta dell’autoesclusione. Si pensi ai celebri episodi pascoliani (Nella nebbia, in Primi poemetti, e Nebbia, in Canti di Castelvecchio), in cui il poeta invoca la protezione estrema dal mondo, espressa nell’anafora del verso iniziale («Nascondi le cose lontane») reiterata all’inizio di ognuna delle sei stanze. Anche per Letizia Pantani la nebbia è un elemento amichevole, dotato d’una dolcezza intima, il «fremito lento», pervasivo e avvolgente, che «attutisce l’impatto col mondo». Non sembra esserci slancio oltre, se non nella pratica della poesia che è ricerca di sé, riflessione sul dolore della scomparsa, racconto intimo, talvolta d’occasione, dai contorni ermetici.

Esilio, per contro, rappresenta una fase successiva, non necessariamente votata al ripiegamento interiore: il titolo è certo sinonimo anche di fuga, ma non rinuncia a l’ultima rivolta, ritemprata nella pausa di respiro (altra immagine ricorrente) a trovare, in questi testi, una boccata d’aria. Il tempo intercorso tra le due raccolte è talmente breve che non ha senso parlare di sviluppo in senso poetico quanto, piuttosto, di mutamento di prospettiva, ben al di là d’una versificazione forse più regolata e dominata nella seconda sezione.

L’aspetto più interessante della poesia di Letizia Pantani è rappresentato però da una potenzialità non realizzata, espressa, in alcuni momenti del Dialogo epistolare, nella volontà di sperimentare, contaminare linguaggi, progettare un agire poetico che non sia necessariamente legato al mutismo denso di pensiero e respiro d’una pagina ferma, ma al nomadismo aperto di una collaborazione tra forme eterogenee. È in questi passi, per quanto sotto forma di propositi, che Letizia sembra alimentare un entusiasmo e una curiosità che potrebbero aiutare, nel minimo d’una singola esperienza letteraria, a far interrogare il lettore, più o meno appassionato di poesia, se quest’arte sfuggente, ora intima ora carica d’indole performativa, possa avere un vero ruolo nella nostra desolata contemporaneità. Una desolazione che la morte, in assoluto impossibile da evitare, nello specifico prematura e inaccettabile, non fa che peggiorare oltre misura.


Letizia Pantani. Sei tamburo che rulla, Lucca, Daris Libri, 2008, p.111, 10 euro